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 2002  aprile 02 Martedì calendario

Brook Peter

• Londra (Gran Bretagna) 21 marzo 1925. Regista. Teatrale. Ha studiato ad Oxford. A Stratford dal 1947, dirige numerose opere teatrali alla Royal Opera House e successivamente al Covent Garden (1947-50). Dal 1961 al 1970 è direttore della Royal Shakespeare Company. Tra i suoi lavori Tito Andronico (1955), Re Lear (1962), Sogno di una notte di mezza estate (1970). Suo il merito di aver modernizzato la messa in scena dell’opera shakespeariana, con trasposizioni anticonvenzionali. Non senza difficoltà: poco amato dalla critica, si trasferisce a Parigi dove fonda l’International Center of Theatre Research. Il suo più grande successo lo ottiene nel 1985 con la messa in scena del Mahabharata, poema epico religiso indiano, che ha portato in giro in tutto il mondo e di cui ha diretto la versione cinematografica (1989). Nel 1999 ha ricevuto la laurea honoris causa all’Università La Sapienza di Roma (’liberal” 10/6/1999). «Esploratore del significato e dei linguaggi del teatro, è il più spericolato tra i contestatori della tradizione teatrale, e al tempo stesso il più puro e ”classico” tra i numi della scena internazionale. Da un trentennio, col suo Centre International de Créations Théâtrales installato alle Bouffes du Nord, lavora alla ricerca di un’essenza, di una sorgente di bellezza estranea ad estetismi, di un’esperienza del teatro che regali ”quell’emozione che gli inglesi chiamano the suspension of disbelief: qualcosa che, come nella tragedia greca, sospende l’incredulità di chi guarda”. Per questo attraversa tempi e spazi nel mondo, fa rivivere la leggenda di Prometeo tra le rovine di Persepoli, evoca la cultura tribale africana (Les Iks), attinge alla tradizione persiana (La conferenza degli uccelli), s´immerge nella ricchezza del pensiero indù (il Mahabharata), indaga i testi ”neurologici” di Oliver Sacks accanto all’amato Cechov e all’irrinunciabile Shakespeare. [...] ”Da tempo la regia in quanto tale non m’interessa più. Io punto a un accadimento in scena. Vorrei condurre il pubblico a confrontarsi con temi assenti dalla vita quotidiana, invasa ossessivamente da violenza, miseria, pornografia, disperazione, frustrazione, malattie, inquinamento. Vorrei che cercassimo una strada diversa, il riflesso di una vita interiore. Quando cominciai a fare teatro le scene londinesi non mostravano altro che un mondo bello e gentile. Tutto il resto era tabù. Con Marat-Sade mostrai scenari di follia e criminalità: scioccare il pubblico era necessario. Oggi le priorità sono cambiate” [...]» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 13/1/2005). «Famiglia di ebrei russi, il più geniale inventore del teatro contemporaneo, e insieme il più instancabile dei suoi contestatori, avverte per la prima volta ”l’importanza del semplice” da bambino, di fronte a un piccolo teatro di cartone abitato da colori netti e personaggi tersi e puri, ”più convincenti del mondo che conoscevo fuori”. A 17 anni, studente a Oxford (il padre lo vorrebbe laureato in legge), si fa espellere dall’università grazie ai primi, burrascosi esperimenti da regista. Poi arrivano le messe in scena: Shakespeare, Marlowe, Cocteau. E il lavoro al Covent Garden, dove scopre quell’orripilante mondo della lirica, fatto di donne grasse, gesti artificiali e orpelli, che per rigetto lo condurrà, molti anni dopo, agli allestimenti scarnificati e limpidi di Carmen e Don Giovanni. la lirica a fargli incontrare Salvador Dalì, a cui il giovane Brook commissiona scene e costumi per la Salomé di Richard Strauss. Ricevuti i bozzetti, che orchestra e cantanti considerano scandalosi e inaccettabili, il regista lo reclama a Londra. Dalì rifiuta inviandogli un messaggio: sostituitemi con un rinoceronte. Peter lo va a trovare a Cadaques e scopre un uomo snob e sensibile al prestigio, la cui sola eccentricità consiste nell’infilarsi fiori alle narici, e che gli narra di sognare balletti con laghi veri in scena e un transatlantico autentico, da sistemare su un palcoscenico d’opera, possibilmente facendolo crollare. La collaborazione con Paul Scofield è per Brook il primo, grande incontro con l’ ”Attore”, fonte viva d’apprendimento. Numerosi episodi testimoniano l’intensità del dialogo. Pur straordinariamente bravo, Scofield è goffo nei movimenti, e Brook, che in una commedia per il West End gli affida il ruolo di un gentiluomo edoardiano, gli vuol far prendere lezioni di ballo. Scofield si sottrae, insegnandogli che quel che conta è l’impressione dell’eleganza, non la sua imitazione gestuale. E mostra di saperla cogliere per alchimia immaginativa, esprimendo l’essenza della raffinatezza: Brook comprende che ”il teatro è il luogo d’incontro tra l’imitazione e quel potere di trasformazione chiamato immaginazione”. per la stessa forza fantastica che il giovane Scofield diventa, pur restando se stesso, il ritratto della vecchiaia in Re Lear, senza imitarne i tratti esteriori, ma proiettando un’immagine esatta.Con Laurence Olivier nasce invece un conflitto così devastante da rovinare il primo film di Brook, L’opera del mendicante. Coproduttore oltre che protagonista dell’impresa, durante le riprese Olivier interviene, disapprova, blocca, cambia inquadrature, strappa al regista la cinepresa. Qualche anno dopo si ritrovano per Tito Andronico. E anche se la buona educazione inglese li porta a fingere, continuano silenziosamente a detestarsi. ”Persino la sua risata era recitata”, commenta Brook, ”come se non cessasse mai di rifinire la sua maschera.” Ma il mistero dell’attore è anche altro. Un talento vivido, genetico. ”Un’originalità organica che rende tutto ciò che fa inaspettato, diverso": è Glenda Jackson. Cupa e sarcastica, negli anni ’60 irrompe nel gruppo di Brook infagottata in un cappotto troppo ampio. Ma quando recita s’apre un mondo. La sua faccia nevrotica e insondabile illumina il film Marat/Sade, frutto del periodo londinese del ”Teatro della Crudeltà”, realizzato con sedute d’improvvisazione sulla pazzia.Attori e autori. Anche i secondi segnano i fili del tempo e i gradi di distillazione del regista. Nel ’51, nella Berlino post-bellica, vibra il ritratto freddo e ironico di Brecht, irritante nelle sue teorie sullo ”straniamento”. Ma potente nel suo impulso a una recitazione grottesca e stilizzata, lontanissima da quella inglese. Una nuova visita al Berliner Ensemble, dopo la morte di Brecht, offre a Brook lo spunto per riflessioni sui fraintendimenti postumi del sistema di regia brechtiano. Assiste infatti sgomento a una prova in cui gli attori sono presi a pugni, scossi, provocati, comandati come marionette. Eppure Brecht non era un insieme di forme rigide imposte all’interprete, anzi: ”Ogni suo schema era riempito dal materiale creativo dell’attore”. Fulminante è il ritratto di Marguerite Duras, con cui Brook collabora per il film Moderato cantabile, tratto da un suo romanzo. Messaggera di una capacità ”alla Cechov” di entrare nei dettagli minimi dell’esistenza ”con una tale pienezza da caricarli di significato”, la scrittrice vive circondata dai molti ex amanti, catturati nella ragnatela del suo clima intenso. Altrettanto forte, ma per motivi diversi, è l’incontro con Jean Genet per la messa in scena parigina de Il balcone, il cui copione audace e sovversivo è stato rifiutato da tutti. Creatura rosea e affettuosa, con vasti occhi innocenti, Genet si rivela presto un mostro d’ingratitudine, che sparisce prima del debutto e fa sapere a tutti, con sprazzi di sadico spasso, di non aver mai potuto soffrire ”quel Peter”. Ma Brook non se la prende, e tra un viaggio e l’altro, psichedelico o reale (la ricerca non esclude droghe allucinogene), avanza impavido nella distillazione. Itinerario denso di lezioni efficaci, sia che arrivino dai Tuareg e dagli acrobati cinesi, sia che il maestro di semplicità si chiami Toscanini. Brook assiste a uno dei suoi ultimi concerti: il leggendario direttore spicca quasi immobile sul podio. Niente passione esibita, nessun gesticolare. La sua stasi è vibrante, la sua mente è chiara. Un reticolo di fili invisibili lo lega agli orchestrali. Peter impara: più che precetti e parole, nel dirigere conta l’ascolto.Nel ’70, a Parigi, nasce il Centre International de Créations Théâtrales. Da qui Brook vola in Africa e in India, negli Stati Uniti, dove fa teatro nei sobborghi più degradati di New York, e in Iran, dove fa rivivere la leggenda di Prometeo tra le rovine di Persepoli dall’alba al tramonto. Con Les Iks evoca la cultura tribale africana, con La conferenza degli uccelli attinge alla tradizione persiana, con l’iperbolica impresa del Mahabharata, rappresentato in nove ore, si tuffa nella ricchezza del pensiero indù. E ancora Cechov e Beckett, i testi ”neurologici” di Oliver Sacks e il teatro politico sudafricano. Alla ricerca umile e inesausta di quell’essenza intuita da studente, nelle passeggiate mattutine a Oxford, tra piante le cui mutevoli tessiture luminose parevano restituirgli gli atomi della percezione: ”Diventavo consapevole che un sospiro affiorava da qualche sorgente profonda e sconosciuta dentro di me e che il senso della bellezza non potesse essere separato da una particolare tristezza, come se l’esperienza estetica fosse una reminiscenza di un paradiso perduto che creava un’aspirazione. Ma non avrei saputo dire verso cosa"» (Leonetta Bentivoglio, ”la Repubblica” 7/9/2001).