varie, 14 aprile 2002
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DE NOBILI Lila Lugano (Svizzera) 3 settembre 1916, Parigi (Francia) 19 febbraio 2002. «Incomparabile scenografa e costumista teatrale [
DE NOBILI Lila Lugano (Svizzera) 3 settembre 1916, Parigi (Francia) 19 febbraio 2002. «Incomparabile scenografa e costumista teatrale [...] Leggendariamente si faceva pagare il meno possibile, o per niente; si racconta che per la celeberrima Manon di Spoleto, ultima sublime regia lirica di Luchino Visconti, accettò dopo molti dinieghi soltanto un chilo di caffè. Negli ultimi tempi, quando era sola e inferma, non volle che le fosse inviato un centesimo della somma non indifferente ricavata dalla vendita di suoi antichi disegni, bozzetti e altro materiale del genere. Certo alle lontane origini di questa indifferenza nei confronti del denaro c’erano anche una infanzia e una adolescenza assai opulente. Suo padre era un uomo d’affari di origini liguri, con molte iniziative - tra l’altro, esportava sigari toscani negli Stati Uniti - e uno stile di vita grandioso; teneva sempre a disposizione sua, della moglie (la madre di Lila era una stravagante fascinosa con lati zingareschi, sorella di un notevole pittore, Vertès) e della piccola Lila, appartamenti in grandi alberghi di parecchie capitali europee e di New York. Quando Lila adolescente frequentava a Roma l’Accademia di Belle Arti - fu lì che fece amicizia con mio zio, più giovane di un paio di anni - abitava con la madre al Grand Hotel. Da piccola era stata ritratta da Aristide Sartorio, pittore del quale sarebbe stata poi brevemente allieva. Era una bambina talmente protetta che quando compì otto anni chiese come regalo di poter salire almeno una volta su di un tram; e fu talmente condizionata da istitutrici e cameriere, che non imparò mai a vestirsi da sola. Da adulta risolse il problema adottando una sciatteria anche questa rimasta proverbiale. Una volta a una prima dell’Opéra di Parigi si seppe che i responsabili dello spettacolo sarebbero stati presentati al Presidente de Gaulle. Lila che come d’abitudine aveva indugiato in scena fino alla levata del sipario, intenta a ridipingere qualcosa, fu trovata tutta coperta di colori, e la sua assistente riuscì soltanto a buttarle addosso, all’ultimo momento, una camicia bianca da uomo con le maniche un po’ arrotolate, che però all’ultimo momento caddero giù - e la mano del Generale si trovò a stringere un polsino. Eppure gli esordi di Lila De Nobili erano stati quasi convenzionali. Sempre a Parigi, nei primi Anni Quaranta aveva collaborato a Vogue, pubblicando regolarmente disegni di moda un po’ fantasiosa. Al teatro arrivò, pare, abbastanza per caso, tramite un’amica che era la moglie del regista Raymond Rouleau, e sarebbe stato quest’ultimo a adoperarla per primo e più stabilmente di tutti. Era dunque già molto nota in Francia, e pubblicamente lodata anche da Christian Bérard, lo scenografo di Jouvet, quando Luchino Visconti si innamorò del suo décor per una riduzione di Anna Karenina, e la volle per la Traviata alla Scala (Callas-Giulini), in seguito diventata mitica. Alla Scala sarebbe tornata poi anche con Franco Zeffirelli: Mignon di Thomas, Aida. Con Rouleau in Italia avrebbe fatto Cirano de Bergerac (con Gino Cervi) e L’Arlesienne di Bizet al primo Festival di Spoleto, dove qualche anno dopo avrebbe disegnato una indimenticabile Bohème per la regia di Gian Carlo Menotti. Ebbe trionfi alla Comédie Française (un Ruy Blas rembrandtiano), all’Opéra (una Carmen con funerei toreri in nero e oro), al Covent Garden (un Rigoletto molto rinascimentale e mantovano, sempre per Zeffirelli), al Quirino di Roma (un Mercante di Venezia per Ettore Giannini), ecc. Ma quando nel 1973, vent’anni dopo quella Traviata che aveva cambiato la storia della regia d’opera, Visconti ormai malato le chiese di disegnargli la Manon di Spoleto, Lila De Nobili non lavorava quasi più, e infatti per questo allestimento si limitò a inviare dei bozzetti, e non lo considerò mai veramente ”suo”. Lei era abituata a esercitare un controllo totale, sceglieva ogni minimo accessorio, discuteva i dettagli più trascurabili di ogni costume, curava il trucco anche delle comparse - per l’Aida della Scala, capolavoro di iconografia egizia filtrata attraverso la Francia dell’epoca dell’apertura del Canale, tentò di ottenere una sfumatura diversa per la pelle di ogni personaggio - e dipingeva le scene. Piero Tosi, sommo scenografo e costumista anche lui, la descrive in atto di spostarsi goffamente per un pavimento semiallagato di vernici, tuffando enormi pennellesse dentro secchi e portandole a destinazione sgocciolanti, nel tentativo di riempire così una superficie lunga più di venti metri. Lavorava da sola e fino all’ultimo momento nessuno capiva quale sarebbe stato il risultato finale: ogni volta c’era un’invenzione audace in vista di un effetto che si verificava imprevedibilmente. Le scene dell’Arlesienne, per esempio, furono dipinte su di un velluto nero. Questo dava in qualche modo ai paesaggi una impalpabile qualità di sogno, ma senza toglier loro riconoscibilità. Quando in seguito mi capitò di attraversare la campagna provenzale dove non ero mai stato, provai la sensazione di conoscere già quei posti; alla fine capii che pensavo proprio a quello spettacolo, alla qualità di luce che Lila era riuscita a catturare. Sopra ho nominato Escoffier, Montresor, Donati, tutti sovrani della loro professione. Lila però era qualcosa di diverso e di meno catalogabile; Lila era un genio. Del genio aveva la creatività, le intuizioni; la naturalezza dell’eleganza; e aveva la caparbietà, la necessità di fare quello che faceva in quel modo lì e in nessun altro, forse nemmeno lei sapeva perché; e contemporaneamente aveva l’umiltà. Nata per disegnare, disegnò tutti i giorni di tutta la vita, tutto quello che vedeva. Poco prima di morire, ottantacinquenne, completamente sorda e ormai quasi muta, si fece dare a cenni una delle pillole che doveva ingoiare, e prima di farlo, la disegnò. Disegnava con uno stile personalissimo, con una grazia aerea, con una poesia che sempre sembrava sfiorare il trabocchetto del sentimentalismo e mai ci cadeva dentro; che impregnava tutto quello che toccava e che nessun maestro riuscì a domare. Lei stessa non rinunciò mai a tentare di disciplinarsi. A più di sessant’anni si iscrisse a una certa scuola di decorazione a Bruxelles dove si insegnava a imitare le venature dei marmi e del legno, per applicazioni nell’arredamento. Che bisogno ne aveva? E che imparò? Forse niente. Una volta era stata invitata a curare una Gigi a Broadway. In quella occasione i sindacati americani decisero che non era abbastanza famosa per poterle concedere il permesso di lavoro senza un esame, così lei sottopose dei disegni, e fu bocciata. Lila non si scompose, aveva ancora tanto da imparare! Quando smise di fare scenografie - dipingerle da sola era diventato troppo faticoso, e i teatri erano sempre meno disponibili a certi esperimenti - continuò a maneggiare matite e colori, anche per gli amici che la andavano a trovare e si facevano ritrarre. Qualcuno riuscì ogni tanto a farle fare la copista (Franco Zeffirelli ha in casa una meravigliosa Monna Lisa, realizzata al Louvre), ma lei non voleva considerarsi pittrice, e non avrebbe mai venduto un quadro, così come non acconsentì mai a esporre i suoi lavori. Quando non era in trasferta, Lila viveva sola, a Parigi, in due stanzette piene di gatti, quarto piano senza ascensore e con poco riscaldamento. Usciva la mattina presto con al braccio un paniere da fioraia ottocentesca in cui teneva un po’ di tutto, compresa una baguette e un mezzo litro di latte, e faceva i suoi giri, da piccolissimi rigattieri, da vecchissimi artigiani, da amici o amiche infermi cui portare conforto; aveva con sé taccuini e matite, e disegnava tutto quello che vedeva. A vederla sembrava fuori del mondo, qualcosa tra la monaca e la mendicante, con degli indomabili capelli di fildiferro e due ardenti occhi neri come il carbone. Eppure sapeva sempre tutto, capiva tutto, aveva sempre già letto i libri che contavano, non sbagliava mai un giudizio. Teneva i contatti scrivendo diligenti letterine su fogli rigati. A quel suo sguardo che captava l’essenza delle cose bastava un particolare minuscolo. ”Non vado più a teatro” scrisse di recente a una collega più giovane ”ma ho visto una foto dei tuoi costumi che mi ha entusiasmato” - e proseguì spiegando il perché. Regalava volentieri il suo gusto infallibile [...] Mille anni fa, o forse non mille, ma certo più di quaranta, si era messo a frequentarla un ragazzotto napoletano emigrato nella Ville Lumière, che di sera batteva. Era uno dei primi travestiti, la voga non aveva ancora preso piede, e anticipando un personaggio di Patroni Griffi aveva adottato come nome di battaglia ”Mariacallas”. La mattina costui passava da Lila, le puliva i pennelli, tentava invano di mettere ordine nella sua bohème; la sera si truccava e usciva in cerca di clienti, avvolto in un grande ferraiolo nero, che faceva svolazzare scenograficamente quando adocchiava un passante promettente. Qualche volta Lila, che nei suoi giri lo controllava, emergeva dall’ombra e gli sibilava critica: ”Troppo”» (’La Stampa” 23/3/2002).