varie, 14 aprile 2002
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Despaigne Joel
• Santiago di Cuba (Cuba) 2 luglio 1966. Giocatore di pallavolo. «Se smette, ”El Diablo”, non è perché l’hanno esorcizzato. Quello, forse, non è mai avvenuto. Nemmeno quando, da giocatore di pallavolo, ha conosciuto la sconfitta. ”E di partite importanti ne ho perse eccome, soprattutto contro l’Italia” ammette oggi che i ricordi si fanno languidi. Ma lui, anche quando soccombeva, riusciva a dare ugualmente il senso dell’invincibilità e della superiorità che confina con l’arroganza. Altrimenti, perché mai avrebbero dovuto dargli del ”diavolo”? ”Già, me lo sono domandato anch’io: perché? Forse perché urlavo, appunto come un demonio, dopo ogni palla buttata giù. E perché, raccontano, i miei occhi parevano quelli di uno spiritato”. Se smette non è perché El Diablo si è arreso alle sfortune e agli infortuni: quelli li ha domati con rabbia e volontà, come palloni da abbattere. E in nome ”dell’amor del volley”, più forte di ginocchia scricchiolanti e di inevitabili declassamenti di categoria, ha accettato di frequentare questo sport perfino su ribalte remote. Una volta finì a Nicosia, nel centro della Sicilia, alla corte dei ”Diavoli Rossi”: affinità infernali, con quella squadra e il suo nomignolo? ”No, semplicemente una bella esperienza sportiva e, dal punto di vista umano, impareggiabile”, sottolinea oggi. La cittadina scoprì il volley fino al più insospettabile dei cittadini, la squadra vinse e salì in B1: fu festa notte e giorno, poi ”El Diablo” salutò. Era solo di passaggio: ma quattro gigantografie alte come statue ancora ricordano quell’asso piovuto dal cielo. Se smette, dunque, Joel ”El Diablo” Despaigne, non è perché non ne ha più o perché è definitivamente rotto. Se smette, è perché sente di essere alle soglie di una scelta di vita. L’ha abbozzata per mesi, la seguirà d’ora in poi nei suoi sviluppi. ”Preciso che la decisione di lasciare la pallavolo è probabile, ma non ancora definitiva. Mi riferisco alla pallavolo al coperto: a beach volley, infatti, conto di giocare il più possibile, fisico permettendo. Ho ancora l’animo e la testa dell’agonista, devo abituarmi all’idea di finire su una panchina: magari comincio con il doppio ruolo, giusto per rendere più morbido l’impatto con la novità”. Una ragazza italiana, Grazia, l’infermiera che lo curò a Catania dopo un intervento e che oggi è sua moglie, l’ha agganciato all’Italia. Joel ha il doppio passaporto e la domanda è: da allenatore, cercherà i nuovi talenti per noi o per Cuba? ”All’inizio per l’Italia, poi chissà...”. Sì, il rapporto ha parecchie pieghe. Cominciamo dal ”cuore”: ”Oggi sono per metà cubano e per metà italiano. Ma la parte cubana resta visceralmente legata alle radici. Se ho deciso di allenare, è anche perché voglio dimostrare al mondo la bontà dei fondamentali che la scuola sportiva del mio Paese mi ha dato. Un domani da commissario tecnico cubano? Non nascondo che è un progetto, forse ’’il’’ progetto”. C’è poi l’altra metà di se stesso e della sua vita, che ha incrociato, incrocia e incrocerà con l’Italia. ”Diciamo subito una cosa. L’incazzatura per le sconfitte che ho rimediato dagli azzurri non verrà mai cancellata: durerà per tutta la vita. Io inseguivo traguardi sportivi; i giocatori, anzi, i campioni italiani, me l’hanno impedito: bravi loro, senza rancore. Ma la sensazione di frustrazione non si attenua, ora che sono pure italiano”. ”El Diablo” ha le corde sensibili, sull’argomento: se pizzicate, suonano note sempre bellicose. Sentitelo di nuovo: ”Prenderò a modello Velasco? Julio è un ottimo tecnico ed è stato un mito per l’Italia del volley. Non è stato il mio mito, però: vorrei assomigliare piuttosto a un grande allenatore cubano, come Orlando Samuel. E tentare, ovviamente, di superarlo”. L’orgoglio dell’appartenenza, per quanto solo rimarcato e mai gridato in maniera sconveniente o irritante, rimane presente nel Despaigne che chiude la borsa da giocatore e prepara quella da tecnico. Fregato forse da Fidel Castro, per quel veto lungo anni che ha impedito alla ”crema” dei cubani del volley, e a lui in particolare, di giocare all’estero nei momenti migliori? ”No. A Fidel devo semmai gratitudine per le opportunità che mi ha dato. L’aver giocato per Cuba, per un principio e per un orgoglio, è stato il più grande regalo che potessi chiedere alla mia carriera: io e i compagni abbiamo potuto provare che un Paese di dieci milioni di abitanti sapeva tener testa alle potenze della pallavolo”. Nel cuore degli anni Novanta, Treviso fu vicina a tesserare ”El Diablo”. Di mezzo, importanti scambi commerciali tra Cuba e il gruppo Benetton. Ma poi non se ne fece nulla. ”Forse i pullover erano pochi...” scherza Joel prima di rifarsi serio: ”Fu una decisione politica e io l’avallai. Sono stato sfortunato, da un certo profilo; ma felice dall’altro”. Proverà a rifarsi spezzando il pane del volley ai ragazzi e cercando ”una buona squadra e un buon progetto”. In serie A o in serie B, non importa: l’essenziale è cominciare. ”Mi sono dato sette anni per diventare l’allenatore numero uno al mondo”. Hasta la victoria siempre, allora? ”Naturale: hasta la victoria siempre...”» (Flavio Vanetti, ”Corriere della Sera” 20/3/2002).