Varie, 14 aprile 2002
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Doctorow Edgar
• New York (Stati Uniti) 6 gennaio 1931. Scrittore. Vive tra una casa al Greenwich Village e una di legni vittoriani nei dintorni della Grande Mela. Osservatore attento della società, è diventato famoso soprattutto con Ragtime, del 1975, il libro poi tradotto in un film, di pari successo, da Milos Forman: affresco coloratissimo e movimentato di una New York di primo Novecento, tessuto di fatti e personaggi storici e d’invenzione, carico d’ingiustizie e malavita quanto di aspettative sociali e politiche. Ha cercato l’America anche negli altri suoi romanzi, nel West selvaggio di Welcome to hard times, dove domina la violenza e il coraggio, così come nelle grandi ambizioni che primeggiano nel Lago delle strolaghe (1979) e nella Fiera mondiale (1985) ambedue ambientati negli anni Trenta. L’acquedotto di New York (1995) fu accolto dalla critica come un capolavoro, una «risposta a Mark Twain», la «prova più convincente che ”il grande romanzo americano”, se non è già questo, è comunque possibile» (Antonio Monda, ”la Repubblica” 1/2/2001). «Dopo il successo di Città di Dio (2000), ha firmato Lamentation, una collezione di parole ed immagini dedicate all’11 settembre. «Noi poeti, narratori ed artisti ci limitiamo a raccontare la verità così come la vediamo e non sta di certo a noi desumerne qualche ”grande” insegnamento morale. Quello che scrivi non vale nulla se durante il processo creativo cerchi di iniettare valori sociali o politici. Per citare il grande W. H. Auden ”in America lo scrittore non aspira mai consapevolmente a produrre manifesti ideologici perché a quello pensano già predicatori e conferenzieri”. Il nostro stile è molto più ironico ed introspettivo rispetto all’Europa. Noi americani scriviamo di famiglie disfunzionali e drammi personali. Il libro impegnato ci appassiona quando viene dall’estero: Nadine Gordimer o Milan Kundera. Ma noi americani non crediamo di meritare romanzi politici [...] Io sono membro della Human Rights Watch che tra le sue funzioni ha quella di distribuire aiuti economici ad autori e giornalisti perseguitati, dall’Asia all’Africa. Persino Paesi occidentali avanzati dell’area islamica come la Turchia si accaniscono contro i propri scrittori [...] Io amo sempre meno la cultura hollywoodiana tirannica ed egemonica che ormai si è impossessata di tutti i media – pubblicità, giornali, editoria, tv – e finisce per fagocitare i giovani talenti creativi, che oggi preferiscono debuttare come sceneggiatori senza aver mai scritto un libro. L’economia della letteratura resta assai modesta. Quando pubblichi un libro la tua casa editrice investe briciole per promuoverlo rispetto ai milioni sperperati da Hollywood per i suoi film[...] Alcuni sceneggiatori producono vera arte ma sono costretti al sacrificio permanente perché scrivono per un medium che butta via il 95 per cento della parola scritta. Nella cultura hollywoodiana lo scrittore lotta costantemente per avere la stessa eguaglianza creativa di registi e produttori. E se la merita, proprio perché le sue parole scompaiono dopo aver fornito le istruzioni al regista. Il compositore è più fortunato: scrive le sue note sulla pagina e qualcuno le traduce in suoni dando vita ad un medium completamente diverso [...] Vengo da una famiglia speciale: mia madre, mio padre, mio fratello maggiore, mia figlia e mia moglie sono tutti musicisti. Credo di aver subito il fascino della musica da quando, nell’utero materno, mi lasciavo cullare al suono del liquido amniotico. Fortunatamente quando ero molto piccolo ho perso il senso di distinzione tra la musica come suono e la musica nel linguaggio. Le due si sono fuse e da allora consciamente o inconsciamente è il suono delle parole e il ritmo delle frasi a dirigere la mia penna”» (Alessandra Farkas, ”Corriere della Sera” 15/2/2003).