Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  aprile 14 Domenica calendario

MONTEFOSCHI

MONTEFOSCHI Giorgio Roma 2 luglio 1946. Scrittore, giornalista, autore televisivo. Primo romanzo Ginevra, nel 1974, poi Il museo africano, L’amore borghese, La terza donna, La Casa del Padre, che nel 1994 ha vinto il Premio Strega (’liberal” 16/4/1998). «Ogni volta che scrive un romanzo [...] misura uno spazio. Raccontare è in primo luogo, per lui, la rappresentazione verbale di uno spazio: non di un tempo. Il luogo è sempre Roma, che egli ama con un amore infinito. [...] Per quanto ci affascini, lo spazio di Roma è pesantissimo, come qualsiasi spazio umano: i personaggi che la attraversano non riescono quasi a respirare, tanto sono pesanti i mobili negli appartamenti, i vestiti sui corpi, i cibi nei frigoriferi, le case sulle strade, i tram e i filobus che ascendono le colline, il Tevere che striscia lentamente e si logora strisciando verso il mare. Vivere è un continuo soffocamento, tanto siamo schiacciati dal peso. Non c’è alcuna via di fuga, perché nemmeno il cielo è leggero, e nessuno sa se è abitato. Montefoschi conosce un solo rimedio contro questo male. Descrive tutti gli oggetti: il pentolino del latte, il cestino del pane, il vaso della marmellata, i reggiseni, le gonne e gli abiti femminili. Ma questo esercizio mira soltanto ad annullare la realtà. Malgrado i suoi apparenti colori, il mondo di Montefoschi è una scena di teatro vuota, sulla quale si aggirano ombre. Su questa scena vuota non avviene mai niente. [...] Nell’universo esiste un solo evento: la meteorologia, molto più importante di tutte le guerre e rivoluzioni. Ottobre diventa novembre, novembre dicembre, luglio agosto: le foglie ingialliscono e tornano a rinverdire: le piogge sono ora rade ora torrenziali; il sole si nasconde o splende come un fuoco infernale. Il tempo ha sottratto agli uomini tutta la forza che, una volta, possedevano, e ora incombe sopra di noi come una divinità implacabile. Ma ci sono diversi tempi: quello velocissimo, quello veloce, quello medio, quello lento. Montefoschi predilige un tempo che è quasi soltanto suo: quello che langue, si estenua, pare sempre sul punto di morire. Nelle case di Roma, gli uomini e le donne parlano: qualche volta, parlano troppo. Ma le parole non rivelano mai nulla di ciò che nascondono i cuori: cadono di scorcio, di lato, o al rovescio. Nei momenti di massima tensione, sull’orlo del disastro, quando due persone dovrebbero pronunciare ciò che hanno sempre celato, dicono soltanto cose banali o casuali. Le parole sembrano morte, o minacciate da una fatale estinzione. Così i sentimenti restano muti e indefiniti. Da qualche cenno, possiamo supporre che questi sentimenti siano di ansia, esclusione, inquietudine, scontento, malinconia, paura: forse paura della vita. Tutti i personaggi sono, in qualche modo, colpevoli, sebbene ne ignoriamo la colpa. Tutti hanno il cuore vuoto, e un desiderio infinito di amore, amore che di rado riceveranno. Tutti ignorano cosa voglia dire la parola felicità. Nei romanzi di Montefoschi, il mondo si regge sulle famiglie: questi universi chiusi, retti da leggi, abitudini e ordini misteriosi. Ogni domenica, i mariti, le mogli, i figli, i cognati, gli zii, i nonni, i parenti si riuniscono nelle case per mangiare insieme e non dirsi niente. Ma anche le famiglie si spossano, come nei cieli si spossa il tempo. Vanno continuamente in frantumi; e insieme a loro va in frantumi il mondo. Non c’è nulla di così triste come la fine delle passioni e dei matrimoni: quando tutto, gioia e malinconia, amore e odio, si spegne e non rimane che vuoto. Non c’è dolore; e proprio l’assenza del dolore è la tragedia più acuta. [...] Il tema fondamentale della sua narrativa è la perdita: ciò che si spegne per sempre, e non si ritroverà mai più, nemmeno nel ricordo o in un’altra vita. Come quelli della Compton-Burnett, i romanzi di Montefoschi sembrano simili o identici tra loro. Ma, in realtà, se li leggiamo con attenzione, vi percepiamo delle piccole differenze, che portano a capovolgimenti totali. Qui, per esempio, lo stile è diventato più rapido e scarno, come se Montefoschi, invece di inseguire il modello sontuoso di Elsa Morante, sognasse di emulare le geometrie di Robbe-Grillet» (Pietro Citati, ”la Repubblica” 24/9/2003). Vedi anche: Lidia Ravera, ”Sette” n. 21/1999).