M. Pagnini, Salute di Sorrisi e canzoni, n. 36 aprile 2002 pagg. 16-19, 17 aprile 2002
Come si cura. In attesa del vaccino c’è l’interferone. Dai farmaci che stimolano gli anticorpi alle terapie combinate, fino al trapianto
Come si cura. In attesa del vaccino c’è l’interferone. Dai farmaci che stimolano gli anticorpi alle terapie combinate, fino al trapianto. Tutti i modi per guarire. Negli ultimi 15 anni la medicina ha fatto enormi progressi nello studio e nella cura delle malattie epatiche. I vaccini contro l’epatite A e B sono già disponibili, quello contro la B è addirittura obbligatorio per i neonati. Una buona notizia arriva da Siena dove, conclusa la lunga fase di test in vitro e sugli animali, è iniziata la sperimentazione sull’uomo di un nuovo vaccino contro il virus dell’epatite C. A individuarlo sono stati i ricercatori della Chiron, che quattro anni fa scoprirono il meccanismo usato dal virus per infettare le cellule. Questo nuovo farmaco potrebbe rivelarsi utile non solo per prevenire il contagio, ma anche per la cura di chi il virus già l’ha contratto. Nell’attesa, il trattamento delle epatiti virali si basa ancora sull’interferone, una sostanza naturale prodotta anche dal nostro organismo, che stimola la produzione di anticorpi specifici contro il virus. Per curare l’epatite B si associa questo farmaco alla lamivudina, un antivirale che sarebbe efficace anche da solo: in una settimana può bloccare il virus senza effetti collaterali. Il problema, però, è che se si interrompe la terapia, il virus torna più forte di prima. Ecco perché si unisce l’interferone. Gli adulti hanno più possibilità di guarire (nel 90% dei casi) rispetto a bambini (35%) e neonati (10%). L’epatite C viene combattuta con l’interferone peghilato (trattato cioè in modo da essere assorbito gradualmente dall’organismo) e la ribavirina: terapia efficace nel 58% dei casi. In seguito a patologie più gravi (tumori e cirrosi), si può rendere necessario il trapianto. Oltre a quello classico, in cui l’organo viene prelevato da un donatore deceduto, esiste anche quello da un donatore vivo, che dà una parte del suo fegato (circa un quarto) al malato. Questa tecnica è possibile grazie alle capacità rigenerative dell’organo: una volta impiantata, la porzione di fegato tornerà a dimensioni normali.