Varie, 26 aprile 2002
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GHOSH Amitav Calcutta (India) 1956. Scrittore. Ha vissuto in Bangladesh, Sri Lanka, Iran. Dopo essersi lauerato all’Università di Delhi, si è trasferito a Oxford dove ha studiato antropologia
GHOSH Amitav Calcutta (India) 1956. Scrittore. Ha vissuto in Bangladesh, Sri Lanka, Iran. Dopo essersi lauerato all’Università di Delhi, si è trasferito a Oxford dove ha studiato antropologia. Nel 1982 ha preso il master in filosofia e il Phd. Giornalista, nel 1986 ha pubblicato il suo primo romanzo, The circle of reason. Altri libri: Le linee d’ombra, Lo schiavo del manoscritto, Cromosoma Calcutta. Insegna alla Columbia University (’liberal” 26/11/1998). «Seguendo la famiglia (il padre era militare e poi è diventato un funzionario pubblico presso il ministero degli esteri), lo scrittore ha trascorso gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, oltre che in India, in parte nello Sri Lanka e in parte in Bangladesh (allora Pakistan orientale), terra d’origine dei suoi genitori. Nel 1976 Ghosh ha terminato i suoi studi universitari in storia presso il St Stephens College a Delhi e nello stesso periodo ha cominciato a scrivere come giornalista per il quotidiano ”Indian Express” di New Delhi. Successivamente, alla fine degli anni Settanta, si è trasferito in Gran Bretagna, per studiare antropologia sociale a Oxford. Dopo un periodo in Tunisia dove ha conseguito un diploma in lingua araba, nel 1980 ha trascorso diversi mesi in Egitto, nel villaggio rurale di Lataifa, per compiere una ricerca sul campo: questa esperienza sarebbe poi stata alla base del libro Lo schiavo del manoscritto (In an Antique Land, 1993). Nel 1982 Ghosh ha preso il dottorato in antropologia presso l’università di Oxford. Il suo primo romanzo, The Circle of Reason (Il cerchio della ragione, Einaudi), è stato pubblicato per Roli Books & Hamish Hamilton nel 1986 e due anni dopo è uscito per Ravi Dayal Publishers il secondo, The Shadow Lines (Le linee d’ombra, Einaudi 1990). Continuando ad alternare scrittura narrativa, saggistica e giornalistica, Amitav Ghosh ha poi pubblicato fra l’altro nel 1996 The Calcutta Chromosome (Il cromosoma Calcutta, Einaudi 1996) e nel 2000 The Glass Palace (Il palazzo degli specchi, Einaudi 2001). [...] Nel corso degli anni molti dei testi di Ghosh sono stati tradotti in diverse lingue - in italiano tutte le versioni sono state curate da Anna Nadotti, ad eccezione di quella del Cerchio della ragione, firmata da Vincenzo Mantovani - e insigniti di riconoscimenti internazionali importanti, anche se forse a fare più scalpore è stata nel 2001 la decisione di Ghosh di ritirare The Glass Palace dal Commonwealth Prize, in segno di dissenso nei confronti del concetto stesso di ”letteratura del Commonwealth”, una definizione - ha osservato lo scrittore nella sua lettera agli organizzatori del premio - ”che àncora un’area della scrittura contemporanea, non all’interno della realtà attuale, e neppure entro le possibilità che ci riserva il futuro, ma piuttosto in un aspetto controverso del passato”. Da diversi anni lo scrittore vive con la famiglia negli Stati Uniti, a New York, dove insegna letteratura comparata presso il Queens’ College della City University of New York» (’il manifesto” 16/6/2005). «Indiano del Bengala che si divide tra l’America e Calcutta e trama romanzi e reportages in un meraviglioso inglese, elegante e intenso almeno quanto quello dell’ammiratissimo V. S. Naipaul. Parla l’arabo, ha vissuto in Egitto» (Mario Baudino, ”La Stampa” 4/9/2002). «Uno degli scrittori indiani più noti a livello internazionale, fa parte di quel gruppo che, come Rushdie, ha studiato ad Oxford e si è imposto nel mondo di lingua inglese, ma parla correntemente anche l’arabo. Ha sviluppato una sua particolare vocazione cosmopolita, che lo ha portato dall’Egitto alla Cambogia alla ricerca di storie, di ambienti, di culture. Einaudi ha tradotto molte delle sue opere, da Le linee d’ombra a Lo schiavo del manoscritto, da Estremi Orienti al Cromosoma Calcutta. I romanzi più recenti sono Il palazzo degli specchi, una lunga saga famigliare nell’Estremo Oriente, e Il cerchio della ragione, che narra le avventure di un giovane con la testa tutta a bernoccoli, tra Calcutta e le sabbie del Sahara [...] la lettura preferita di sua madre era una traduzione di Grazia Deledda» (’La Stampa” 19/5/2004). «[...] il cinema, e più in particolare il cinema di Satyajit Ray, ha avuto un’influenza fortissima su tutti i miei libri: è stato proprio guardando i suoi film che la mia immaginazione ha assunto una dimensione visuale molto forte, che poi cerco sempre di trasferire sulla pagina. E ancora, del cinema di Ray, mi piace il modo di costruire le storie, attingendo ad ambiti diversi, dalla storia alla fantascienza. Nei miei libri sento di appartenere alla stessa tradizione culturale [...] Scrittori come me sono effettivamente traduttori: io ho la possibilità di abitare contemporaneamente e di essere ugualmente accettato in mondi diversi, un piccolo villaggio indiano e una città come New York. La letteratura per molto tempo è stata, come dire, ”monolingue’, legata a un’unica circostanza. Quello che facciamo ora è esplorare il mondo di domani, in cui sarà sempre più comune trovarsi a contatto con diverse situazioni, in cui la situazione ”monolingue’ non esisterà più. [...] La traduzione è il processo che mette due mondi in congiunzione, non solo linguistica, ma di potere o di fragilità. Per uno scrittore come me che, per nascita, formazione ed esperienza, non può fare a meno di essere consapevole dell’enorme divario fra ricchezza e povertà del mondo in cui viviamo, parlare di traduzione significa anche creare un contatto fra queste situazioni. [...] Quando in India è uscito Il paese delle maree un importante scrittore bengalese ha detto che questo è un libro che appartiene alla nostra tradizione, perfino alla nostra lingua. Il processo di traduzione ci è così profondamente intrinseco, che alla fine la lingua che si adopera passa in secondo piano. [...] sono convinto che ci siano sempre stati molti autori indiani interessanti. Quello che il mondo comincia a scoprire è solo la punta dell’iceberg, anche perché gli autori noti al di fuori dell’India sono per lo più quelli che scrivono in inglese. Del resto, storicamente la cultura indiana è legata alla narrazione da molti secoli, basti pensare alle storie del Mahabharata o del Panchatantra. In un certo senso, riaffacciandoci sulla scena internazionale, ci stiamo semplicemente riconnettendo alla nostra tradizione. Quello che abbiamo davanti è solo l’inizio, e io sono molto orgoglioso di scrivere in questo momento della letteratura indiana. [...] Credo che la divisione fra generi sia per lo più artificiale. Scrivo soprattutto narrativa, perché penso che mi consenta di spaziare fra ambiti diversi in modo più completo, di coprire tutti gli aspetti dell’esperienza umana. Ho una grande passione per Herman Melville, che per molti anni ha lavorato come giornalista e che nei suoi romanzi ha costantemente attinto alla realtà per i suoi lavori, rielaborando i materiali dei libri di viaggio o dei saggi storici che amava leggere. Mi spiace molto che oggi la scrittura narrativa abbia accettato una sorta di delimitazione, per cui si identifica la scrittura con lo spazio domestico. Questo a me non interessa affatto. Se non si inserisce lo spazio domestico in un mondo più ampio, non vedo proprio a cosa serva scrivere. La vera sfida della scrittura è la ricerca di una unità metaforica che corrisponda alla unità del mondo» (Maria Teresa Carbone, ”il manifesto” 16/6/2005).