Varie, 26 aprile 2002
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Biografia di Giacomo Mancini
• Cosenza 21 aprile 1916, 8 aprile 2002. Politico. Dal 1970 al 1972 fu segretario del Psi, prima della svolta autonomista del Midas (1976) promossa dallo stesso Mancini. Più volte ministro nei governi di centrosinistra (alla Sanità, ai Lavori pubblici, al Mezzogiorno), nove volte eletto in Parlamento, la prima nel 1948. Era figlio di Pietro Mancini, uno dei fondatori del Partito socialista. Dopo la diaspora seguita al periodo di Tangentopoli aveva scelto di rimanere a sinistra. Inguaribile polemista, figura di spicco a livello nazionale, era anche legatissimo alla sua terra d’origine, la Calabria. Sindaco di Cosenza da nove anni, nel secondo mandato si era candidato come rappresentante di tutto l’Ulivo. A partire dal 1993 venne coinvolto in una lunga e tormentata inchiesta giudiziaria per presunti legami con le cosche mafiose calabresi. Nel ’99 fu assolto dalle accuse. «Fu socialista. Forse neanche per scelta o vocazione, ma perché non avrebbe potuto essere altro. Suo padre, Pietro, fondatore del partito, grande avvocato, era il socialismo a Cosenza e in Calabria. Il giovane avvocato Giacomo volle raccoglierne l’eredità. Ci è riuscito appieno, ha resistito anche alla tragedia che ha squassato il socialismo italiano, e poi per sette lunghissimi anni all’accusa infamante di aver concorso, dall’esterno, all’attività criminale delle più potenti cosche calabresi: l’ultima assoluzione, dopo che per testimoniare in suo favore era sceso in Calabria il fior fiore della sinistra italiana, è del novembre ’99, e lui se ne è andato a ottantasei anni come voleva andarsene, da sindaco della sua città. Fu socialista. Ma sarebbe più giusto essere precisi e dire che, almeno fino a quando si occupò in prima persona di politica e del partito, fu socialista autonomista, nenniano, come si diceva un tempo e come si poteva essere nenniani nel Mezzogiorno e in Calabria. Alla Camera entrò nel ’48, 26 mila voti di preferenza tra la sua gente, eletto nelle liste del Fronte Popolare: ci resterà per nove legislature. Giorgio Napolitano, che come Paolo Bufalini, Gerardo Chiaromonte, Emanuele Macaluso, Rosario Villari lo conobbe negli anni delle lotte meridionaliste, ricorda Mancini come un autonomista sempre fiero delle proprie ragioni, e ostinato nel difenderle, che non fu mai, però, anticomunista. Si tratta, crediamo, di un giudizio onesto, per quel tempo e anche per le stagioni successive al 1956, quando, all’indomani della feroce repressione sovietica della rivoluzione ungherese le strade dei socialisti e dei comunisti si separarono, e Mancini fu chiamato da Nenni a occuparsi di un’organizzazione, quella del Psi, che non voleva essere più vassalla della ben più potente organizzazione di Botteghe Oscure. Fu socialista. Autonomista, nenniano, uomo di governo nel centro-sinistra, ministro nei governi Moro e nei governi Rumor. Da ministro della Sanità impose l’introduzione del vaccino antipolio Sabin, alla faccia delle resistenze burocratiche e degli interessi economici consolidati. Da ministro dei Lavori pubblici fu severo verso gli speculatori, come all’epoca proprio non usava, dopo la frana di Agrigento. Sbagliò anche, tantissimo, come testimonia il disastro del quinto centro siderurgico nella sua Calabria. Fu socialista. E quindi, ovviamente, antifascista: nel ’44, a Roma, era nell’organizzazione militare clandestina della Resistenza. Della destra missina fu uno dei bersagli prediletti. Quando il Candido di Giorgio Pisanò funse da capofila nella campagna sullo scandalo Anas. Ma anche, e molto più, una decina di anni dopo, quando Reggio Calabria quasi insorse con i ”boia chi molla” di Ciccio Franco, contro Catanzaro diventata capoluogo regionale, contro Roma, contro Mancini e quello che già allora si chiamava il ”mancinismo”, un’idea e una pratica spregiudicate, cioè, della politica, nel tentativo di far fronte alla Dc sul suo stesso terreno. E anche in materie a dir poco delicate, come l’industria di Stato, e i servizi. Fu socialista. Autonomista, nenniano, riformista. Si battè per l’unificazione tra Psi e Psdi, ma quando questa rapidamente fallì non arrestò la sua corsa e, nel 1970, divenne segretario del partito. Durò solo un paio di anni, ma furono anni importanti. Qualcuno, più tardi, vi scorse anche una premessa, un’anticipazione della stagione di Craxi, una sorta di variante meridionale di quella politica di collaborazione sì, ma anche di competizione a muso duro con la Dc che Bettino avrebbe condotto in stile milanese. Di certo Mancini non apprezzò affatto la linea del suo successore, Francesco De Martino, di cui pure era personalmente amico: né la teoria degli ”equilibri più avanzati” né, tanto meno, l’idea che il compito dei socialisti fosse essenzialmente quello di favorire l’imminente compimento dell’evoluzione del Pci. Altrettanto certamente fu lui, nel luglio del ’76, a pilotare il Comitato centrale del Midas, che dopo la sconfitta elettorale aveva defenestrato De Martino, verso l’elezione di Craxi: un po’ perché quel suo vicesegretario che conosceva così poco non gli dispiaceva, molto perché pensava che, debole come all’epoca Craxi era, sarebbe stato facile guidarlo da padre nobile. Un altro errore, in tutta evidenza. Scontato con una rapida emarginazione nel partito. Fu socialista. Autonomista, nenniano. E garantista, come a un socialista si conviene. Si battè sempre in primissima linea per i diritti civili: a cominciare dalla battaglia per il divorzio. Negli anni di piombo non si associò al fronte della fermezza contro il terrorismo, e gli furono rimproverate, in specie dai comunisti, debolezze e simpatie personali verso esponenti di primo piano dell’Autonomia. La sinistra extraparlamentare gli era lontana mille miglia: ma per libertarismo e anche per calcolo politico non le sbatté mai la porta in faccia. Fu socialista. E calabrese. E cosentino. Può darsi, come pensano in molti, che questo sia stato il suo limite più forte. Ma lui lo ha vissuto come un suo tratto distintivo, e un suo merito» (Paolo Franchi, ”Corriere della Sera” 9/4/2002).