Varie, 26 aprile 2002
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Yehoshua Abraham
• Gerusalemme (Israele) 9 dicembre 1936. Scrittore. Insegna letteratura a Gerusalemme. I suoi romanzi, tradotti in molte lingue, hanno avuto un notevole successo: L’amante, Cinque stagioni, Il signor Mani, Ritorno dall’India, Un divorzio tardivo ecc. • «Il più grande scrittore dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo (e uno dei più bravi del mondo intero) [...] narra esistenze di persone normali, non belle, magari bruttine (come le persone normali), e dei loro drammi di lavoro, di famiglia, d’amore. La sua grandezza si può spiegare con una tautologia: Yehoshua è un bravo romanziere perché scrive romanzi. [...]» (Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 36/1997). «La mia tecnica consiste nell’elaborare prima di tutto una specie di ossatura in cui scrivo più o meno che cosa succederà. Amos Oz mi prende in giro e mi chiede a che punto sono con le parole crociate, perché lui è attratto dall’ignoto, e quando scrive ignora completamente che cosa accadrà in seguito, non ha la più vaga idea di quanto sarà lungo il suo romanzo, di conseguenza mi vede come qualcuno che scopre a poco a poco la soluzione di un cruciverba. Io invece credo che sia necessario un programma: quando un pittore dipinge, conosce già le dimensioni del quadro, non comincia a dipingere per poi aggiungere della tela. Lo stesso vale per la musica: Mahler, per esempio, quando componeva un concerto o una sinfonia, aveva già in mente le varie parti e la loro struttura. Non voglio dare consigli, perché ognuno ha il suo metodo, c’è chi scrive di giorno e chi di notte, chi trae vantaggio dalla regolarità e chi la trova nefasta. Io ho bisogno di molta disciplina, non posso aspettare l’ispirazione per scrivere; sono come un impiegato: al mattino accendo il computer, lavoro fino all’ora di pranzo, poi faccio il pisolino e dopo mi rimetto al lavoro. Per me queste sono ore di lavoro, che scriva o no. Cerco la regolarità anche quando sento di avere molto da raccontare, e allora mi trattengo, non mi lascio trascinare, ma rispetto un ordine, pur cercando di scrivere sempre il più possibile. Quando ho cominciato a scrivere, non pensavo che ne avrei fatto la mia professione. Il mio caro amico e collega Amos Oz all’età di cinque anni scrisse sulla porta di camera sua: "Farò lo scrittore". Io invece volevo fare l’avvocato, una professione che mia madre approvava; avrei voluto essere come gli avvocati delle mie opere. In tutti i miei libri c’è almeno un personaggio che esercita una professione legale. Ne appaiono nel Signor Mani, in Cinque stagioni, in La sposa liberata c’è persino una donna giudice. Sono affascinato dalla questione della legge, dagli interrogativi su chi ha ragione e chi no. Con mia madre ho sempre dovuto dimostrare di aver ragione perché lei ogni volta sosteneva che avevo torto. A pensarci bene dev’essere questo il motivo per cui da bambino volevo fare l’avvocato: per imparare come si fa ad aver ragione. Anche se sino alla fine ha avuto ragione solo lei. Il mio desiderio di scrivere ha avuto due origini, la prima sono state le storie che mio padre mi raccontava quando ero piccolo. Il libro Cuore, di De Amicis, ha avuto un’influenza fondamentale su di me, e forse ha anche a che fare con l’amicizia che provo per l’Italia. Non so che cosa pensino gli italiani di De Amicis e quale sia il suo posto nella coscienza letteraria del Paese, ma per me, e non solo per me, averlo sentito raccontare da bambino rappresenta un’esperienza indimenticabile. Il piccolo scrivano fiorentino, la storia di un bambino che porta avanti il lavoro del padre, di notte, a sua insaputa, e finisce per andare male a scuola, causando un conflitto col padre, è alla base del mio primo racconto, Il poeta continua a tacere, in cui un figlio ritardato scrive per suo padre. Racconti come questo mi colpivano molto, mi facevano piangere. Leggevo e mi commuovevo, piangevo sul momento e anche dopo, quando ci ripensavo. [...] Fin da bambino sono rimasto impressionato dalla forza della suggestione e dell’identificazione, che ritengo le chiavi dell’arte. Il secondo elemento che ha suscitato in me il desiderio di fare lo scrittore si trova nei brevi pezzi umoristici che scrivevo a scuola o nei movimenti giovanili, più o meno una volta ogni dieci o quindici giorni, nei quali collegavo le nostre realtà particolari con realtà universali. Li leggevo poi ad alta voce, e mi rendevo subito conto che il legame fra l’immaginario, l’assurdo, e ciò che era noto a tutti - fatti avvenuti in classe o nel movimento - toccava il pubblico con una forza particolare, che mi incoraggiò a scrivere. In seguito, durante il servizio militare, ero in un’unità dove il venerdì si organizzavano sempre delle feste, allora i miei superiori mi davano due ore di permesso perché scrivessi una storiella. Il privilegio di quelle due ore di libertà guadagnate grazie alla scrittura mi faceva talmente piacere che ho continuato questa attività. Il potere della suggestione letteraria e il legame fra il quotidiano e la fantasia sono stati alla base della mia scrittura, e questo vale ancora oggi. Il più grande complimento che possa farmi qualcuno che ha letto un mio libro non è dirmi che l’ha trovato bello o interessante, ma che ha pianto. Un lettore del genere lo abbraccerei!» ("La Stampa", 22/5/2003).