Varie, 8 maggio 2002
Tags : Beniamino Andreatta
Andreatta Beniamino
• Trento 11 agosto 1928, Bologna 26 marzo 2007. Politico. Economista • «[...] quaranta anni fa le cronache giornalistiche cominciarono a parlare di lui. Si teneva a San Pellegrino il secondo convegno di studi della Dc di Aldo Moro e il professore trentino lesse dalla tribuna la relazione su ”Pluralismo, programmazione e libertà”. Un contributo alla cultura politica dei cattolici che ancora oggi conserva un alto valore documentario per la sua modernità, per il tentativo di dare alla prospettiva della programmazione un forte ancoraggio liberale. […] La sua originalità si rintraccia già nel contributo che diede al dossettismo. Il giovane professore era cosciente di come negli insegnamenti di Giuseppe Dossetti ci fosse un forte elemento ”giacobino”, laddove era lo Stato a plasmare la società e l’economia. Da quel giacobinismo - che sarà una delle costanti della cultura politica della sinistra dc - era attratto non meno di quanto ne avvertisse i pericoli. Da qui la sua iniziativa per integrarlo con la cultura anglosassone, di immettere nella grammatica dossettiana un filone tecnocratico o, se preferite, le ragioni dell’economia. in nuce l’Andreatta che l’Italia che conta imparerà ad apprezzare per le battaglie sul rigore, per la lucidità che lo porta a realizzare da ministro il divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro e per il contributo dato alla nascita delle authority. La sua modernità e il suo rigore in diverse occasioni sono entrate in rotta di collisione con la Dc. […] Una dimostrazione di rigore laico la diede nel giudicare, da ministro del Tesoro, le responsabilità della banca vaticana Ior nel crac dell’Ambrosiano e ciò non piacque al partito e fu il presupposto della mancata designazione nei successivi governi. Nell’83, dopo la sconfitta elettorale della Dc con sei punti lasciati sul campo, si batté per una rifondazione alla tedesca del partito, per importare al di qua delle Alpi la laicizzazione che Helmut Kohl aveva impresso alla Cdu. Giorgio Forattini interpretò alla sua maniera quella proposta, vestendo il professore trentino da unno e disegnandolo mentre prendeva a calci la dirigenza del partito. Anticipatore lo è stato anche per i processi politici che hanno portato alla scomparsa della Dc e alla nascita del Ppi prima e della Margherita dopo. Sarà perché è sua concittadina - anche la Margherita è nata a Trento - ma il professore è stato tra i primi a intuirne le potenzialità. Del resto l’esigenza di un dialogo ravvicinato tra cattolici democratici e cultura laica è stata una costante della sua azione. Non va dimenticato che fu lui a impegnarsi più di altri nell’operazione, quella che portò alla candidatura di Umberto Agnelli nelle liste della Dc. ”Per recuperare la fiducia dell’elettorato moderato - sostenne al congresso del Ppi del ”94 - dobbiamo muoverci su una rotta opposta a quella della vecchia Dc. Dobbiamo essere il partito del risanamento, il partito delle privatizzazioni, per liquidare lo Stato imprenditore, la distorsione della concorrenza, l’inquinamento della competitività”. Una volta diventato primo ministro Romano Prodi, soffrirà della rottura del ”99 tra il suo allievo e i Popolari e, in parallelo, guarderà con interesse alla nascita dei Democratici, una tappa che porterà alla Margherita. Se, dunque, per l’attenzione alle magistrature tecniche, alle élites tecnocratiche, ai centri di ricerca (ha fondato Prometeia e presiede ancora l’Arel, che non volle mai come mera associazione della sinistra dc) ha i tratti di un riformista senza popolo, ha avuto però sempre grande considerazione per i temi del welfare» (Dario Di Vico, ”Corriere della Sera” 30/5/2002). «Si addormentò, mentre intorno a lui tutto mutava. Si è addormentato alla Camera, due anni e mezzo fa, quando al governo c’era l’Ulivo, alla Regione Lazio Badaloni, Marco Biagi consigliava il centrosinistra, e lui, il professore che nel febbraio del ”95 aveva individuato come futuro premier un suo allievo – ”né D´Antoni né De Rita, l’uomo giusto è Romano” -, andava cercando ”il nuovo Prodi”, e credeva di averlo trovato in un banchiere cattolico con cui tanti anni prima aveva diviso libri, maestri e un appartamento in affitto a Milano, Giovanni Bazoli. Oggi Prodi e Bazoli sono tra gli allievi, gli amici, le persone di famiglia che lo vanno a trovare. Gli parlano. Lo chiamano professore, gli danno del lei, come all’università. Lui non può sentirli (forse: i medici non lo escludono), ma loro non si rassegnano a perderlo, anzi, non l’hanno perso. Ne parlano sempre al presente, mai al passato: non Andreatta era; Andreatta è. ”La sua vita è come sospesa”, ripetono. Nell’attesa, è sempre il presidente dell´Arel, è professore emerito di Economia all´università di Bologna, è consigliere di Prometeia, altra sua creatura, è autore del saggio Per un’Italia moderna. Questioni di politica e di economia che Il Mulino aveva preparato per la sua ultima lezione da professore, e in questi giorni ha inviato ai suoi amici. Così riceve anche lettere, indirizzate a lui, di ringraziamento. Sarebbe stata una lezione sulla globalizzazione, racconta uno dei quattro figli, Filippo, che del padre ha il sorriso, gli occhi e forse anche la fortuna accademica, a 34 anni già in cattedra, professore associato di Scienza della politica a Parma. Il suo ultimo discorso in Parlamento era stato sulla globalizzazione, anticipava alcune delle cose che sarebbero accadute, da Genova a Porto Alegre. L’ha ripubblicato l’Arel, l´istituto di ricerca che fondò nel ”76 con Umberto Agnelli e altri neoeletti nelle liste Dc, uno dei tanti cespiti della sua eredità, accudito da vecchi e giovani amici come Franco Merloni, Roberto Pinza, Enrico Letta, e da altri come Giuliano Amato che si sono fatti avanti per proseguire quel lavoro, per coltivare l’intuizione che la politica si potesse non solo fare ma anche pensare. ”Adesso creare una fondazione è di moda - sorride Letta -, Andreatta però è stato il primo”. La vocazione del fondatore l’aveva sempre avuta, come quando era tornato nella sua città natale, Trento, al fianco del professore con cui aveva studiato a Padova, Norberto Bobbio, per dar vita alla prima facoltà di sociologia d’Italia: terroristi e manager, contestatori geniali e rigoristi cattolici, Curcio e Magnabosco, Mara Cagol e Pierluigi Celli, Rostagno e Gubert; o come quando era partito per la Calabria, a crearvi con Sylos Labini il primo campus universitario. A Trento Andreatta aveva al fianco un giovane assistente, Romano Prodi. ”L’ho incontrato a Milano, alla Cattolica, e non me ne sono più separato - racconta a bassa voce il presidente della Commissione europea -. Lei mi chiede di parlarle di Andreatta. Potrei farlo per una settimana intera. Io ad Andreatta devo quasi tutto. Ci siamo sempre dati del lei, ma siamo amici. A modo nostro. Quando divenni presidente del Consiglio, e lui era il mio ministro della Difesa, provai anche un po’ di imbarazzo. stato il mio testimone di nozze. Anche mia moglie Flavia è stata sua allieva, si è laureata con lui. Fu Moro ad avvicinarlo alla politica, ma Andreatta non si poteva classificare in una corrente; anche per questo i capi democristiani ne diffidavano. Quando cominciava l’avventura dell´Ulivo, lui ebbe un ruolo fondamentale: nel convincere gli altri che l’uomo giusto ero io; e nel convincere me. Ci fu una riunione con i maggiorenti del Ppi, Bianco, Elia, Bianchi, in cui Andreatta impresse un’accelerazione, trasformò un’ipotesi in un’investitura. Si fidava della sinistra, sempre però con un senso fortissimo della propria identità. Stavamo a parlare per ore. Ma quando fondai i Democratici non gli proposi neppure di seguirmi; sapevo quanto fosse legato al suo partito, e certe cose agli amici non si chiedono. Quando andai a Bruxelles, lui tentò a lungo di convincermi a non farlo, a rifiutare. ”Se si ha un progetto bisogna restargli fedeli”, mi ripeteva. E io a dirgli che no, che rifiutare non potevo; che ad altre cariche mi sarei sottratto (il pensiero è al Quirinale nda), ma sottrarsi all’Europa sarebbe stata una ferita per il paese, per l’Italia”. Dev’essere pesato, a Prodi, quel no detto sotto i portici di Bologna. Centocinquanta metri, da casa del maestro a quella dell´allievo. In mezzo, il dipartimento di Economia, che cade nel territorio della parrocchia di San Bartolomeo, dove assistenti e ricercatori andavano a messa ad ascoltare le omelie di monsignor Gherardi, il parroco sceso da Monte Sole, sopra Marzabotto. Perduto Prodi, vissuta l’amarezza della crisi dell’Ulivo, superato a fatica il trauma della rottura tra Ppi e Democratici, Andreatta si mise alla ricerca di un’altra intelligenza conforme alla sua, che Amato ha definito la più viva del secolo, e Giovanni Bazoli considera ”la più straordinaria in cui mi sia mai imbattuto”. Fu appunto al banchiere bresciano che Andreatta si rivolse. Era un altro no che lo attendeva. ”Valevano le ragioni che ancora oggi mi inducono a occuparmi di Banca Intesa, anche se vedrei con favore la possibilità di rinunciarvi - spiega Bazoli -. Lei mi chiede se sarebbe cambiato qualcosa, qualora Andreatta avesse potuto ripetere la richiesta, insistere. Le rispondo che tutti noi, non soltanto io, dobbiamo badare a non cadere nella logica del ”se”. Glielo dobbiamo”. Proteggere il silenzio del padre, è il compito che si è dato Filippo, che si è data la famiglia. Preservare per il passato e per il futuro la sua parola, di cui Ezio Raimondi, memoria storica del Mulino, sente la mancanza al punto da farne l’elogio per un’ora di fila, nel suo studio di via Farini. Dunque la parola di Andreatta, a tentare di rendere il ricordo di Raimondi, era fulminea, improvvisa, imprevedibile, mai banale; apriva molte questioni, indicava una o più soluzioni, e creava pure qualche guaio. Fecondo anche quello: come nel ”63, quando in una conferenza all’università americana di Bologna si pronunciò a favore del centrosinistra, mettendo a soqquadro il gruppo del Mulino e provocando la rottura con gli industriali che lo finanziavano. Ognuno degli allievi porta un ricordo e un pezzo di eredità. Paolo Onofri si prende cura di Prometeia, la società di ricerche dove il progetto modernizzatore di Andreatta incontrò le grandi aziende italiane, e nella sede di via Marconi si attarda a raccontare di quando negli Anni ”70 fu realizzato il primo modello econometrico per prevedere gli andamenti dell’economia, e sembrava che le cose potessero prendere la piega giusta. Angelo Tantazzi presiede la Borsa di Milano. Carlo D’Adda, presidente della società italiana degli economisti, ha appena curato una raccolta di saggi sul pensiero di Andreatta, pubblicata anche questa dal Mulino. Alberto Quadrio ha appena rifiutato la proposta di collaborazione arrivatagli dal governo. Mario Tesini ha scritto una appassionata nota biografica alla luce delle sue trouvailles nella biblioteca di casa Andreatta, le annate di ”Cronache sociali”, la rivista della corrente dossettiana della Dc, e i due saggi del 1950 in cui La Pira alterna citazioni di Keynes e delle Scritture. E se davvero, come sostiene Filippo, non ci sono gabbie entro cui chiudere il pensiero di suo padre, che fu affascinato da Keynes negli Anni ”60 ma anche dal monetarismo negli ”80 e dal rigore nel ”90, se si può cercare un filo che leghi gli allievi e le eredità, lo si può trovare nell’opposizione alla destra - con un’unica eccezione, Mario Baldassarri - e nel cattolicesimo. Spiega Bazoli: ”Dire che viveva la fede come un fatto privato sarebbe nello stesso tempo una verità e una sciocchezza. vero, perché l’ostentazione non gli apparteneva. sciocco, perché i valori del cattolicesimo informavano ogni sua azione. Aveva il coraggio dell’indipendenza, e lo dimostrò più volte, non solo quando denunciò in Parlamento le responsabilità dello Ior nel crack dell’Ambrosiano. Sapeva ascoltare. Tutti. Era attentissimo ai bisogni degli altri, soprattutto dei piccoli. Di un disinteresse assoluto. Di uno spessore morale che è quel che manca alla politica, all’Italia di oggi. Per questo sento terribilmente la sua lontananza. Era attento non solo all’etica ma anche all’estetica dei gesti. Quando Prodi ruppe con il Ppi, mi spiegò così perché non l’avrebbe seguito: ”Ho appena rotto con Buttiglione, non si possono fare due cose eclatanti di fila”. Ma previde pure che un giorno popolari e democratici si sarebbero ritrovati, ”in una nuova casa che si chiamerà Margherita’”. La fede non è estranea alla costanza con cui la famiglia ne veglia il sonno, ne protegge il silenzio, ne coltiva l’attesa, in forme su cui non il caso qui di soffermarsi. Basti dire che quando una relazione della moglie di Andreatta, la signora Giana, psicanalista, in un convegno di un’associazione bolognese che si occupa di bambini e di risvegli, è stata interpretata come una riflessione personale, la famiglia si è amareggiata, ha rivendicato il diritto a tacere, a esprimersi solo con l’azione, la cura, la sollecitudine; che non sono meno eloquenti; che indicano con chiarezza qual è la scelta. C’è sempre una persona di famiglia, a far da tramite tra i visitatori e il visitato, a filtrare i modi che potrebbero giovargli e quelli che potrebbero nuocergli. Meglio visite rare, ma lunghe. ”Non riesco a lasciare Bologna senza passare a salutarlo” racconta D’Adda. ”Non passo mai da Bologna senza salutarlo” dice Bazoli. ”Vorrei essere amato dai miei familiari come lo è lui” si commuove Prodi. E questo dolore paziente ci ricorda che l’attesa - di una persona amata, del risveglio di un marito e di un padre, dell’avvento del nuovo Prodi, o del ritorno del vecchio - è un valore; e che, per quanto possa sembrare vano, non si può comunque fare a meno di attendere» (’La Stampa”, 28/4/2002).