Varie, 8 maggio 2002
Tags : Jonathan Franzen
Franzen Jonathan
• Western Springs (Stati Uniti) 17 agosto 1959. Scrittore • «Occhiali, camicia azzurra e l’aria coltivata degli americani che hanno studiato molto e hanno studiato bene, parla con cautela e ascolta con educato sospetto. Si è bruciato più di una volta: la prima, presumiamo, nel 1996, quando ”Harper’s” ha dedicato la copertina al suo grido di dolore per la progressiva irrilevanza della letteratura in un mondo divorato dalla televisione, e alcuni hanno liquidato quella riflessione come lo sfogo dell’autore frustrato di due romanzi graditi alla critica ma non al pubblico. La seconda nell’inverno 2002, quando nel pieno della trionfale rivincita che si è preso con Le correzioni, il romanzo dell’anno in America, un milione di copie vendute e la critica in ginocchio, ha respinto maldestramente l’invito a comparire nel talk show più popolare del Paese, ed è stato selvaggiamente attaccato dalla stampa e dagli intellettuali» (Livia Manera, ”Corriere della Sera” 24/4/2002). «[...] cresciuto nel Midwest, [...] nella vita si era affannato alla ricerca del grande romanzo di profondo significato sociale. Aveva pubblicato due libri, The twenty-seventh city e Strong motion, che rispondevano al suo esigente gusto letterario ma non a quello del pubblico. Il doppio flop commerciale lo aveva precipitato in una crisi depressiva, da cui era uscito a malapena scrivendo articoli su riviste, in cui tra l’altro si scagliava contro la miseria letteraria dell’America contemporanea. [...] La sorte gli ha però giocato uno scherzo. Aveva appena consegnato all’editore il terzo romanzo, The corrections, lungo 568 pagine, limato in cinque o sei anni di lavoro, e dedicato alla vita alienante di una famiglia disfunzionale del Midwest. Tragica e divertente, seria e scorrevole, come le contraddizioni del suo carattere. Il libro sembrava destinato alle solite lodi della critica, e alla solita disattenzione del pubblico, quando invece la regina della cultura popolare americana, Oprah Winfrey, l’aveva scelto come opera del suo book club televisivo. Detto e fatto: l’artista ambizioso, cerebrale, impegnato e serio, è diventato un fenomeno nazionale istantaneo grazie alla tv per massaie di metà pomeriggio. Lui l’ha presa bene, perché finalmente arrivava il successo, ma l’ha presa anche male, perché non sognava certo di riceverlo dalle mani di Oprah. Così per un po’ si è prestato al gioco, accettando persino di girare un documentario sulle sue radici a St. Louis. Ma una volta ottenuta l’attenzione nazionale ha finito per farsi cacciare dal book club, attirando definizioni dai critici tipo ”snob accecato dall’ego”, monello viziato e opportunista ingrato. Fatto sta che Corrections ha venduto oltre un milione di copie negli Usa, e diverse altre migliaia in Europa, costringendolo a seguire la regola aurea che impone di doppiare ogni bestseller con un’altra opera immediata. Così è arrivata la raccolta di saggi vecchi e nuovi, che da una parte serve a colmare il vuoto editoriale, e dall’altra gli permette di togliersi qualche sasso dalle scarpe, obbligando la critica a rileggere testi che in passato aveva trascurato o frainteso. Tra l’altro si parla di Alzheimer, supercarceri, fumo, lingerie, arte di riciclare oggetti presi tra i rifiuti, e tanta letteratura. Ma soprattutto si afferma il diritto di uno scrittore a restare solo, secondo la grande tradizione americana dei Salinger, Pynchon o McCarthy. [...] ”Resto ancora incerto tra quello che pensavo da bambino, quando un libro era divertimento e se non lo capivo pazienza, e quello che ho imparato all’università, dove invece un libro era il prodotto di un genio, e se non lo apprezzavo ero stupido. Ho cercato di partecipare al discorso letterario più elevato, ma mentre lo facevo mi sono scoperto a prediligere i libri di chi raccontava storie di uomini attraverso i suoi personaggi [...] Basta guardare come sono vestito. Ormai credo che i molti anni vissuti senza denaro mi abbiano rovinato. Chi ama fare acquisti nei negozi di Soho non sceglie di scrivere libri, perché arricchirsi con questo mestiere è molto difficile. Quindi chi decide di scrivere, in genere non è portato per il lato ludico dello shopping, e quando ha successo non sa bene cosa fare dei soldi [...] Non sono riuscito neppure ad essere un buon depresso, perché il lavoro che facevo mi consentiva di stare in piedi fino alle tre del mattino a meditare. Anzi, la parola depressione non mi piace e penso che sia abusata nella nostra società, come se bastasse a raccontare l’intera vicenda di un persona. Perciò cerco di scuoterla un po’ nei miei libri”» (Paolo Mastrolilli, ”La Stampa” 17/12/2002). «[...] Franzen è il perfetto campione della letteratura contemporanea, consapevole del conflitto tra cultura di massa e romanzo, tra elitarismo della lettura e pervasività dei mass media e della televisione. Non è né un luddista né un apocalittico, ma uno scrittore che accetta le sfide» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 31/8/2003). «All’inizio degli anni Novanta ero depresso come il nucleo urbano della narrativa. Il mio secondo romanzo, Strong Motion, era una lunga e complicata storia sulla vita di una famiglia del Midwest in un mondo di sovvertimento morale, e questa volta, invece di spedire le mie bombe in una busta imbottita piena di ironia e understatement, come avevo fatto con La ventisettesima città, ero uscito allo scoperto lanciando molotov di retorica. Ma il risultato fu identico: un’altra pagella con buoni voti da parte dei critici, che avevano sostituito gli insegnanti la cui approvazione, quando ero più giovane, avevo desiderato ardentemente senza però ricavarne alcune soddisfazione; una discreta quantità di denaro; e il silenzio dell’irrilevanza. Nel frattempo, mi ero ricongiunto con mia moglie a Philadelphia. Per due anni avevamo continuato a spostarci lungo tre zone di fuso orario, cercando un luogo piacevole e poco costoso dove non ci sentissimo estranei. Alla fine, dopo un’attenta valutazione, avevamo preso in affitto una casa troppo costosa in un’altra città depressa. Il fatto che continuassimo a sentirci infelici sembrò confermare al di là di ogni dubbio che non esisteva alcun posto al mondo per gli scrittori di narrativa. A Philadelphia cominciai a fare calcoli inutili, moltiplicando il numero di libri che avevo letto l’anno precedente per il numero di anni che potevo ancora ragionevolmente aspettarmi di vivere, e scorgendo nelle tre cifre del risultato non tanto un preannuncio di mortalità (anche se le notizie da quel fronte non mi tirarono su di morale), quanto una misura dell’incompatibilità del lento lavoro della lettura con l’ipercinesi della vita moderna. D’un tratto ebbi l’impressione che i miei amici che un tempo leggevano non si giustificassero neanche più per il fatto di avere smesso. Una giovane conoscente che si era laureata in Letteratura inglese, quando le chiesi cosa stesse leggendo, rispose: ”Vuoi dire lettura lineare? Come quando leggi un libro dall’inizio alla fine?”. Non c’è mai stato un grande spreco di amore fra la letteratura e il mercato. L’economia dei consumi predilige prodotti che si possano vendere a un prezzo elevato, che si logorino in fretta o si possano migliorare regolarmente, e che offrano a ogni miglioramento qualche lieve vantaggio in termini di utilità. Per un’economia come questa, il nuovo che rimane nuovo non è soltanto un prodotto inferiore; è un prodotto antitetico. Un classico della letteratura è poco costoso, riutilizzabile all’infinito e, peggio ancora, non migliorabile. Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, l’economia politica americana si è impegnata a consolidare i propri guadagni, ad ampliare i mercati, a mettere al sicuro i profitti e a scoraggiare i pochi che ancora la criticavano. Nel 1993 i segni di questo consolidamento erano visibili ovunque. Li riconoscevo nei voluminosi furgoncini e nei massicci fuoristrada che avevano rimpiazzato l’automobile come veicolo preferito nei sobborghi - quei Ranger e Land Cruiser e Voyager che costituivano il vero bottino di una guerra combattuta per mantenere il più basso possibile il prezzo della benzina americana, una guerra che aveva trasmesso qualcosa come mille ore di spot pubblicitari per l’alta tecnologia, una guerra dei consumi diffusa attraverso la Tv commerciale. Vedevo i soffiatori da giardino sostituire i rastrelli. Vedevo la Cnn tenere in ostaggio i viaggiatori nelle sale d’attesa degli aeroporti e i clienti in fila alle casse dei supermercati. Vedevo i processori 486 rimpiazzare i 386 e venire rimpiazzati a loro volta dai Pentium, di modo che, nonostante le nuove economie di scala, il prezzo base di un computer portatile non scendesse mai al di sotto dei mille dollari. Vedevo la Penn State University vincere il Blockbuster Bowl. Tuttavia, proprio mentre andavo santificando la letteratura, ero così depresso da non riuscire a fare altro, dopo cena, che accasciarmi davanti alla Tv. Non avevamo i canali via cavo, ma trovavo sempre qualcosa di divertente: una partita Phillies contro Padres o Eagles contro Bengals, M*A*S*H*, Cheers, Homicide. Naturalmente, più guardavo la Tv e peggio mi sentivo. Se sei uno scrittore e nemmeno tu hai voglia di leggere, come puoi aspettarti che qualcun altro legga i tuoi libri? Pensavo che avrei dovuto leggere, così come avrei dovuto scrivere il terzo romanzo. E non un terzo romanzo qualsiasi. Avevo sempre pensato che inserire i personaggi di un romanzo in un ambiente sociale dinamico arricchisse la narrazione; che la gloria di questo genere letterario consistesse nell’abbracciare la distanza che separa l’esperienza privata dal contesto pubblico. E poteva esistere un contesto più vitale dell’annullamento di tale distanza da parte della televisione? Ma il terzo libro mi paralizzava. Torturavo la storia, la stiracchiavo per farvi entrare un numero sempre maggiore di quelle cose-del-mondo che interferiscono con l’impresa della scrittura. L’opera piena di trasparenza e bellezza e allusività che volevo scrivere si stava gonfiando di tematiche. Avevo già inserito la farmacologia contemporanea e la Tv e la razza e la vita carceraria e un’altra dozzina di linguaggi; come sarei riuscito a ironizzare anche sull’esaltazione di Internet e sul Dow Jones, lasciando spazio per le complessità dei personaggi e dell’ambientazione? Il panico cresce nel divario fra la continua espansione del progetto e i tempi sempre più stretti dei cambiamenti culturali: come ideare un vascello che possa galleggiare sulla storia per tutto il tempo necessario a costruirlo? Il romanziere ha sempre più cose da dire a lettori che hanno sempre meno tempo per leggerle: dove trovare l’energia per dialogare con una cultura in crisi quando la crisi consiste nell’impossibilità di dialogare con la cultura? Furono giorni infelici. Cominciai a pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato nell’intero modello di romanzo come forma di ”impegno culturale”. Nel diciannovesimo secolo, quando Dickens e Darwin e Disraeli leggevano le opere l’uno dell’altro, il romanzo era il principale mezzo di istruzione sociale. Un nuovo libro di Thackeray o di William Dean Howells era atteso con la stessa eccitazione con cui oggi si attende un evento cinematografico di fine dicembre. La grande, ovvia ragione del declino del romanzo sociale è che le moderne tecnologie sono un mezzo di istruzione sociale molto più efficace. Televisione, radio e fotografia sono media vividi e immediati. Anche il giornalismo, sulle orme di A sangue freddo, è diventato una possibile alternativa al romanzo in campo creativo. Grazie all’ampio pubblico di cui dispongono, la Tv e le riviste possono permettersi di raccogliere una vasta quantità di informazioni in poco tempo. Pochi scrittori seri hanno abbastanza soldi per fare un salto a Singapore, o per pagare l’enorme quantità di consulenze che conferiscono una parvenza di autenticità a serial televisivi come E.R. e NYPD Blue. Se uno scrittore di medio talento volesse raccontare, per esempio, la condizione degli immigrati clandestini, sarebbe uno sciocco a scegliere lo strumento del romanzo. Idem per lo scrittore che intendesse offendere la sensibilità dominante. Il lamento di Portnoy, del quale a suo tempo persino mia madre sentì parlare quanto bastava per disapprovarlo, è stato probabilmente l’ultimo romanzo americano che avrebbe potuto apparire sul radar di Bob Dole come un incubo di depravazione. I Baudelaire di oggi sono i musicisti hip-hop. L’essenza della narrativa è il lavoro solitario: il lavoro della scrittura, il lavoro della lettura. Sono in grado di conoscere intimamente Sophie Bentwood, e di parlare di lei con la stessa naturalezza con cui parlerei di una buona amica, perché ho riversato i miei stessi sentimenti di paura e alienazione nell’interpretazione del personaggio. Se l’avessi conosciuta solo attraverso la versione cinematografica di Quello che rimane (Shirley MacLaine realizzò il film nel 1971, per farsi pubblicità), Sophie sarebbe rimasta un’altra, da cui mi avrebbero separato lo schermo, la superficialità della pellicole e la presenza scenica della MacLaine. Al massimo, avrei potuto dire di conoscere un po’ meglio Shirley MacLaine. Eppure il principale desiderio del paese è proprio quello di conoscere un po’ meglio Shirley MacLaine. Viviamo sotto la tirannia del letterale. Gli sviluppi quotidiani delle storie di O. J. Simpson, Timothy McVeigh e Bill Clinton hanno un’intensa, iconica presenza che relega le nostre vite non teletrasmesse in un subalterno mondo d’ombra. Per giustificare la loro richiesta di attenzione, gli organi dell’informazione e della cultura di massa sono costretti a offrire qualcosa di «nuovo» ogni giorno, anzi, ogni ora. Anche se i buoni scrittori non seguono deliberatamente le mode, molti di loro si sentono in dovere di prestare attenzione alle tematiche contemporanee, e adesso si trovano di fronte a una cultura in cui quasi tutte le tematiche vengono bruciate praticamente senza sosta. Una scrittrice che volesse descrivere la società in un modo attuale sia nel 1996 sia nel 1997, potrebbe ritrovarsi a corto di solidi referenti culturali. Una questione di attualità durante la fase di progettazione verrà quasi certamente superata nel momento in cui il romanzo sarà stato scritto, riscritto, pubblicato, distribuito e letto. Niente di tutto questo impedisce ai commentatori culturali - in particolare a Tom Wolfe - di biasimare gli scrittori per la loro rinuncia alla descrizione sociale. La cosa più sorprendente del manifesto per il ”Nuovo Romanzo Sociale” scritto da Wolfe nel 1989, ancor più della sua incredibile ignoranza dei numerosi ed eccellenti romanzi socialmente impegnati pubblicati tra il 1960 e il 1989, era l’incapacità di spiegare perché IL SUO nuovo Scrittore Sociale ideale non dovesse scrivere sceneggiature per Hollywood. E perciò vale la pena di ripeterlo: così come la macchina da presa ha conficcato un piolo nel cuore dell’arte descrittiva, la televisione ha ucciso il romanzo di cronaca sociale. Gli scrittori realmente impegnati possono ancora piantare un chiodo in qualche crepa del monolito. E tuttavia lo fanno con la consapevolezza di non poter più contare sul proprio materiale, come facevano Howells e Sinclair e Stowe, ma solo sulla propria sensibilità, e con la prospettiva che nessuno li leggerà per ricavarne informazioni» (’La Stampa” 31/8/2003).