Varie, 8 maggio 2002
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Kirwan John
• Auckland (Nuova Zelanda) 16 dicembre 1964. Ex giocatore di rugby. Una delle ali più forti della storia del rugby. Nel 2001 fu chiamato nello staff della nazionale italiana per poi diventarne allenatore nel 2002 (fino al 2005) • «Anche nel sangue di John Kirwan ci sono globuli bianchi e rossi. Solo che i suoi sono ovali. Lo scrive Marco Pastonesi, nel suo splendido libro sulla squadra di rugby più famosa del pianeta (All Blacks, Baldini& Castoldi, 20 euro), e probabilmente è vero, anche se manca il referto di laboratorio. Rugbista, figlio e nipote di rugbisti, Kirwan è un deposito di gloria ovale. Da giocatore - un tre quarti ala potente, agile, spietato, un metro e 93 per 92 chili di stazza - è stato campione del mondo nell’87, in dieci anni da titolare con i Tutti Neri neozelandesi ha disputato 63 test match, 96 partite, e segnato 34 mete. Una delle quali, messa giù contro l’Italia proprio durante la prima Coppa del Mondo, all’Eden Park di Auckland. [...] Come uomo, ”Gei Key”, viso largo sotto un taglio di capelli da porcospino, è uno capace anche di scelte scomode, laceranti: a 23 anni fu uno dei due All Blacks a rifiutare la tournée nel Sud Africa dell’apartheid. In Italia l’Angelo Nero, come lo chiamavano, arrivò per far vincere anche Treviso, 45 mete in 60 partite, quattro anni in maglia Benetton e uno scudetto nell’88-’89. Ci rimase per amore di Fiorella, poi diventata signora Kirwan, e oggi i suoi tre figli, Francesca, Niko e Luca, sono italiani. Passato allenatore emigrò in Giappone, poi tornò a casa per istruire i tre quarti degli Auckland Blues. Infine è ripiombato da noi: prima vice dell’altro All Black Brad Johnstone, poi commissario tecnico degli azzurri dal marzo 2002. lui la guida della nazionale che ha vinto per la prima volta due partite ai Mondiali, innescando un piccolo boom ovale anche in Italia. Se il rugby è una religione, gli All Blacks ne sono i guerrieri-stregoni, e Kirwan un mistico pragmatico del gioco, un gladiatore dalla voce gentile. [...] ”Non sono d’accordo con chi sostiene che non arriveremo mai al livello dei migliori. Noi dobbiamo puntare a vincere il ’Sei Nazioni’, il nostro obiettivo deve essere quello. Anche la Francia, dopo essere entrata nel ’Cinque Nazioni’, impiegò anni prima di vincere il torneo. Ci serve solo tempo. [...] importante che il livello del campionato cresca, soprattutto sul piano della tenuta mentale dei giocatori, come è importante che la nazionale continui a fare da traino. Oggi avremmo bisogno di un risultato grandioso, di una vittoria che infiammi l’ambiente. La nazionale che alleno è giovane, interessante, in continua evoluzione, non bisogna mai fermarsi”. Kirwan viene da una schiera di eletti. Gli All Blacks in Nuova Zelanda sono una sorta di semidei, ma con un conto salato da pagare per tanti onori: perdere non è consentito. Il Tutto Nero vive nel terrore di non essere all’altezza del ruolo, veglia e dorme tenendo sotto il cuscino la paura del male assoluto: la sconfitta. L’haka, la danza di guerra maori che inaugura ogni battaglia degli All Blacks, ti spiega subito la posta il palio: ”Ka mate! Ka mate! Ka ora! Ka ora”. la morte, è la morte, è la vita, è la vita. ”Se devo scegliere un giorno della mia carriera - dice Kirwan - prendo quello in cui ho indossato la maglia degli All Blacks per la prima volta, a 19 anni, contro la Francia. Mettere quella maglia significa vestirsi anche di tutte le storie, di tutte le vite dei compagni che ti hanno preceduto. Ma è stata una grande soddisfazione anche lo scudetto vinto a Treviso. In squadra c’erano due neozelandesi, io e Green. Ma eravamo un’ala e un centro: vuol dire che il lavoro duro lo hanno fatto gli italiani”. Anche l’Italia del rugby deve trovare un proprio stile, un marchio di fabbrica che la identifichi: ”Stiamo cercando lo spirito italiano. Ho detto una volta gli italiani che dovrebbero giocare a rugby come guidano - sorride Kirwan - con una struttura di base, certo, con organizzazione, ma anche con brio, con estro. Perchè l’italiano è così: rispetta le regole, ma ogni tanto gli piace anche trasgredirle. [...] Cosa vuol dire essere un uomo? Se ti butti a placcare uno che ti arriva addosso come un treno, okay, quello è coraggio. Ma un uomo è fatto anche di emozioni. In campo, se sono tuo avversario, ti faccio di tutto, ti passo sopra. Ma finita la partita ti abbraccio e ti invito a bere una birra. Se ti trovi uno stadio con ottantamile persone che cantano e non ti commuovi, vuol dire che non sei normale. [...] Una volta mi hanno chiesto di cosa ha bisogno soprattutto un rugbista. Di amore, ho risposto, e mi hanno guardato tutti come un pazzo. Specie gli inglesi. Ma dico, vi ricordate della prima volta che vi siete innamorati? La bellezza, l’intensità, la tensione di quei momenti? Ecco, quello che proprio non è possibile per un rugbista è entrare in campo senza provare emozioni forti. [...] Dalle botte, da qualsiasi botta si guarisce. Un giovane maschio durante gli anni della crescita ha bisogno di sfogare, di incanalare la sua aggressività. E il rugby ti insegna a farlo con onestà e lealtà. Ti insegna ad essere uomo. [...] All’Italia devo dire solo grazie. Sono nato in una zona non certo ricca della Nuova Zelanda, là facevo il macellaio. Ora vivo a Treviso, qui ho trovato mia moglie, i miei figli sono nati qui. Mi sento italiano in certe sfumature, in dettagli che è difficile descrivere. Sicuramente da voi ho imparato a mostrare di più ciò che provo, a non tenermi dentro le emozioni”» (Stefano Semeraro, ”La Stampa” 8/12/2003).