Varie, 8 maggio 2002
AUNG SAN SUU KYI
AUNG SAN SUU KYI Rangoon (Birmania) 19 giugno 1945. Politico. Premio Nobel per la Pace 1991. Figlia dell’eroe dell’indipendenza birmana, Aung San, leader dell’Alleanza Nazionale per la democrazia, il suo partito vinse le elezioni del 1990 con l’82% dei voti, ma la giunta militare annullò il voto. Agli arresti domiciliari dall’89 al ’95, dal ’95 al 2000 non le fu permesso di uscire dalla capitale Rangoon. Di nuovo al domicilio coatto dal settembre 2000, fu liberata il 13 novembre 2010 • «Per anni, ogni settimana, il lunedì in genere, alle quattro del pomeriggio, ha incontrato i suoi sostenitori, migliaia e migliaia, da quattromila a diecimila, riferivano allibiti i poliziotti. Ma chissà quanti poliziotti in borghese si nascondevano tra la folla, ufficialmente per “riferire”, segretamente per partecipare anche loro a questa informale cerimonia di democrazia, non proibita dai Generali, nemmeno tollerata, ma subita. Perché la globalizzazione avrà tanti difetti ma il seme della solidarietà vi può allignare assai bene. Quegli incontri settimanali con la signora erano l’unica cerimonia democratica che questo paese, Birmania o Myanmar che si voglia, ha mai potuto concedersi da quando Aung San Suu Kyi vinse a valanga le elezioni nel 1990 con l’80 per cento dei voti e fu “reclusa”. Suu Kyi però si è sempre affacciata, quando ha potuto, alle sbarre azzurre del cancello della sua casa, un bungalow a due piani che sta andando a pezzi, schermato da una fitta vegetazione. E ha sempre sorriso ai suoi sostenitori, spesso ha anche riso di cuore rispondendo a domande banali, troppo banali per lei che vive nella sua sovrana e inviolata solitudine. Ha detto una volta di sentirsi in marcia assieme a “una processione di gente che sta cercando di raggiungere una meta impossibile”. Ma l´importante, ha spiegato, è, comunque, “marciare”. Anche quando non le hanno permesso di vedere i suoi due figli, lei ha marciato; anche quando suo marito, l’inglese Michael Aris, studioso del Tibet, è spirato a Oxford, il 28 marzo del 1999, lei ha continuato a “marciare” chiusa in casa, agli arresti domiciliari. Eppure la sua vita di “privilegiata” avrebbe potuto essere un’altra, anche se per Suu Kyi, diventata un simbolo e consapevole di esserlo, questa prigionia è forse stata il massimo dei privilegi. Nata nel 1945, figlia di un militare, Aung San, che era il capo della Lega Popolare antifascista della Birmania che, nel 1947 vinse le elezioni. Fu assassinato poche settimane dopo assieme ai suoi più stretti collaboratori: Suu Kyi aveva due anni, questo padre eroe non lo ricorda, fu allevata da sua madre, Daw Khin Kyi, cristiana di fede. Da morto il padre di Suu Kyi è diventato l’icona più pervasiva della Birmania, il simbolo - anche lui come, in seguito, la figlia - della possibilità che una Unione Birmana fosse possibile, nonostante i conflitti etnici gonfiati da vecchi odii e nuovi interessi; e nonostante le lacerazioni della guerra civile che imperversò per anni fino a quando un pazzo generale, Ne Win, la cui ideologia si presentava come “via birmana al socialismo” ma era, in realtà, un misto di xenofobia e di astrologia con una infarinatura di marxismo, non prese il potere nell’anno 1962. A quell’epoca la ragazza Suu Kyi studiava a Dehli, in India, dove sua madre era ambasciatore della Birmania. Andò poi, dopo la laurea, a Oxford e conobbe Michael. Si sposarono: vissero felici e contenti? Avrebbe anche potuto essere così, soltanto che nelle nuove emergenti democrazie dell’Asia, le donne, mogli e figlie portano un fardello più pesante che nelle nostre vecchie democrazie: se sei la figlia di Aung San, di Bhutto, di Sukarno o di Nehru, da te ci si aspetta più che dalla figlia di Churchill, o di Aldo Moro, tanto per fare qualche citazione. Ci si aspetta di più perché tutto è più giovane: non più confuso, la confusione domina ovunque. Suu Kyi, sposa di un prof di Oxford, conduceva una tranquilla vita da esule in una bella casetta senza sbarre. Si recava spesso in Birmania, a Rangoon, a trovare la madre malata e, nel 1988, la ricondusse in patria la notizia di un grave attacco di cuore patito da quella che la Birmania considerava la Vedova, senza pagarle, però, nessun particolare rispetto. Comunque, anche la madre era diventata un’icona per un regime di militari corrotti che aveva sempre più bisogno di legittimare la sua tirannia e quella delle multinazionali che, dallo sfruttamento del lavoro della mano d’opera locale traevano - ancora traggono – il loro interesse. Parrà strano ma la sensazione che qualcosa stesse ribollendo nella pentolaccia di Rangoon e che Suu Kyi potesse essere liberata, finalmente, si è avuta quando una multinazionale dell’intimo per signora - reggiseno, slip, merletti e così via - ha deciso di non produrre più a Rangoon. Come mai? Ora si sa: il vento della democrazia, forse, può mandare tanti stracci in aria lasciando nudi e crudi dei generali» (Renata Pisu, “la Repubblica” 1/5/2002).