Varie, 23 maggio 2002
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Garin Eugenio
• Rieti 9 maggio 1909, Firenze 29 dicembre 2004. Filosofo. Storico. Ha dedicato la sua vita a due campi privilegiati di studi: Umanesimo e Rinascimento da un lato e «la filosofia del sapere storico» dall’altro, con una particolare attenzione a Gramsci, Croce e Gentile. «Una di quelle personalità ”intere” di cui è difficile ritrovare lo stampo. Tale lo rendeva la molteplicità degli interessi e delle passioni culturali. Filosofo, letterato, storico del pensiero sia antico che contemporaneo, studioso della politica, cattedratico senza sussiego, egli ha offerto la prova che si può vivere attivamente nel proprio tempo conservando un forte sentimento del passato. La figura del ”dotto” trovava in lui un’interpretazione aggiornata. L’aria sommessa e olimpica, da professore all’antica, nascondeva la curiosità partecipe di un intellettuale a suo modo militante. Fiorentino di adozione (era nato a Rieti il 9 maggio 1909), con un che di agile nella persona minuta, Garin sembrava inattaccabile dal tempo. Era dotato di memoria vivace. Gli incontri con lui, anche se dedicati in partenza a una questione specifica, si risolvevano in uno spaccato di vita italiana dagli anni Venti in poi. Ogni accenno ai suoi studi, ai suoi libri anche più proverbiali - dall’Umanesimo italiano alle Cronache di filosofia - gli dava lo spunto per intrattenersi su personaggi della vita culturale italiana: maestri, colleghi, allievi con i quali aveva compiuto una ricerca, lavorato all’edizione d’un testo, ricostruito una vicenda d’epoca. Si considerava soprattutto uomo di scuola. Lo era stato anche suo padre, insegnante alle ”secondarie superiori” e sottoposto a continui spostamenti di sede. La famiglia di Garin, savoiarda di Albertville, aveva optato per l’Italia all’atto della cessione della Savoia alla Francia. Sia questa scelta storico-familare, sia l’aver vissuto in varie città a seconda degli incarichi di suo padre e poi suoi, dava al suo essere italiano un connotato più forte: d’elezione, appunto. Sentiva Firenze come sua patria, avendovi compiuto tutti gli studi fino alla laurea, accanto a maestri la cui lezione lo avrebbe segnato a lungo. Erano - per citare i più importanti - Ludovico Limentani, professore di filosofia morale, ebreo, scolaro di Roberto Ardigò ma positivista alquanto ”eretico”; e lo ”spiritualista” Francesco De Sarlo. Erano, l’uno e l’altro, antifascisti. E ciò, nella Firenze del 1925 (proprio allora Garin s’iscrisse a quell’università), era una scelta di campo impegnativa. Il professore ricordava spesso di aver assistito alle violenze squadristiche che, in quell’anno appunto, sconvolsero la città: Vasco Pratolini le avrebbe raccontate nel romanzo Cronache di poveri amanti. Uno dei suoi primi incarichi di insegnante lo condusse per quattro anni, dal ”31 al ”35, a Palermo. La trovò ”affascinante e strana”. Nelle ore libere dall’insegnamento frequentava la biblioteca filosofica che aveva sede nel palazzo Reale, e nella quale si potevano incontrare studiosi illustri: oltre a Vittorio Emanuele Orlando, anche Benedetto Croce o Giovanni Gentile. Crociano o gentiliano? Ecco una scelta apparentemente obbligatoria per uno studioso della sua generazione. E tuttavia Garin si è sempre sottratto al dilemma. Non lo considerava tale. Stimava imprescindibile l’influenza dell’uno e dell’altro: e nel dichiarare questa doppia ascendenza filosofica amava ricordare tante pagine del suo amico Guido Calogero in cui essa veniva spiegata assai bene. Di Croce lo attraeva il modo di concepire l’attività storiografica e molti aspetti della vita morale. Privilegiava fra le sue opere la Filosofia della pratica. Rileggeva di continuo Cultura e vita morale. Di Gentile lo affascinavano il metodo, lo scrupolo filologico con il quale egli faceva storia della filosofia. E poi c’era l’importanza che Gentile dava al Rinascimento, la passione spesa nel rivendicare l’attualità di quel passato. Garin, specialista dell’umanesimo fra i più celebri non soltanto in Italia, riconosceva di essersi specchiato in quelle intuizioni del filosofo siciliano. Benché lo infastidisse venir considerato, per antonomasia, ”studioso del Rinascimento”, quasi marchiato con un’etichetta, era quello l’orizzonte storiografico che preferiva. [...] Non ne era affascinato in esclusiva, ma lo considerava la grande stagione degli italiani. Anche qui, la solennità dell’enunciazione si stemperava nel gusto dell’aneddoto. Rivendicando a proprio merito l’aver facilitato la lettura di molti testi, soprattutto del Quattrocento, rievocava come una delle emozioni più intense della sua vita la scoperta di venticinque dialoghi di Leon Battista Alberti, gli Intercenales. ”Quando riconobbi quell’inserto manoscritto legato in fondo a un incunabolo di Sant’Agostino, nella biblioteca di Pistoia, ebbi un sussulto”, riferiva. La sua frequentazione dell’umanesimo era cominciata nel 1934, quando scrisse un libro su Pico della Mirandola: il volume poté uscire solo nel ”37 da Le Monnier, perché la guerra etiopica aveva causato una mancanza di carta. Seguì la pubblicazione, a sua cura, di molte opere di Pico e di Coluccio Salutati. Nel ”52 uscirono, in edizione Ricciardi, i volumi dei prosatori italiani del Quattrocento. Lo stesso anno Laterza pubblicò L’umanesimo italiano, già edito a Berna, in tedesco, nel 1947. Da oltre un decennio, ormai, Garin insegnava filosofia a Firenze: dal ”49 come ordinario. I temi delle sue ricerche non si esaurivano con il Quattrocento. Persisteva il suo legame con i moralisti settecenteschi di lingua inglese, ai quali, da Bernard de Mandeville ad Antony Shaftersbury, aveva dedicato la tesi di laurea. Ma non solo. ”Ho avuto il torto”, confessava, ”di abbandonarmi sempre alla curiosità, girovagando da Rousseau a Cartesio”. Quelle di Garin nel pensiero contemporaneo furono, inoltre, assai più che mere incursioni: le sue Cronache di filosofia, uscite nel 1955 e assai lodate da Croce, erano in realtà frutti di studi cominciati dieci anni prima. Vi si trova una sorta di autobiografia dell’autore, riflessa nei filosofi in cui si riconosceva o con i quali polemizzava. Ancora dieci anni fa, Garin recensiva e discuteva, in un volume laterziano, i filosofi delle generazioni più recenti. Lo seduceva l’arte di produrre libri, chiamava i maestri stampatori ”eroi non celebrati della prima età moderna”: il suo volume Editori italiani tra Ottocento e Novecento è una sorta di dichiarazione d’amore al libro. Altre opere di Garin, come Intellettuali del XX secolo, riflettono i suoi umori nei riguardi della cultura italiana sotto il fascismo. Il filosofo aveva preso la tessera del fascio nel ”32 per poter partecipare ai concorsi universitari. Mai era stato un fascista ”attivo”. E tuttavia non condivideva la tesi ”negazionista”, di coloro che sostengono l’inesistenza di una cultura fascista. Il regime littorio non fu, come voleva Croce, ”l’invasione degli Hyksos”. Il fascismo intrattenne rapporti intensi e continui con l’intellighenzia. Instaurò con la gente di cultura un dialogo agitato e continuo. Diventò pratica frequente, all’epoca, ciò che un saggista seicentesco, Torquato Accetto, chiamava la ”dissimulazione onesta”. In intellettuali che pure furono politicamente fascisti, come Pirandello, Garin leggeva soltanto la fine di ogni sicurezza, l’angoscia tipica del loro tempo. Sono fra i personaggi tragici di quel secolo feroce che è stato il Novecento. Da Coluccio Salutati fino a Gramsci, per non dire fino a Togliatti: quando, un po’ scherzando, gli si formulava in tal modo l’arco dei suoi interessi politici o speculativi, Garin non insorgeva. Anzi. Ammirava, nell’autore dei Quaderni del carcere, lo sforzo di conciliare il socialismo con l’istanza della libertà, di ripensare la cultura italiana come storia degli intellettuali. Considerava Togliatti ”un uomo di notevolissima cultura”, un professore universitario mancato. ”Non perché non sarebbe riuscito”, precisava, ”ma perché aveva scelto un’altra strada, molto più pericolosa ma anche molto più gratificante”. Anche se non prese mai la tessera del Pci, fu sempre vicino a quel partito, finché esso ebbe vita. E poi a quella interpretazione della sinistra. Fino al termine della vita. Respingendo ogni obiezione. Non si proclamò mai marxista, trovando stupido fregiarsi di un’etichetta. Ma non meno insensato gli sembrava pensare che Carlo Marx fosse stato messo in soffitta nel 1989, una volta per tutte. E che fosse ormai obbligatorio - sono sue parole - ”mettersi a urlare: Viva Adamo Smith!”. Quello stesso Smith che egli ammirava come grande filosofo. [...]» (Nello Ajello, ”la Repubblica” 30/12/2004). «Benché il suo profilo intellettuale sia stato più quello dello storico della Filosofia che non del filosofo, con la sua opera, il suo magistero, i suoi giudizi e le sue interpretazioni, Eugenio Garin ha inciso in maniera profonda sulla cultura filosofica italiana della seconda metà del Novecento. Fin dall’inizio aveva indirizzato il suo interesse di studioso alla storia della filosofia, che voleva solidamente costruita sull’esame delle fonti, sull’analisi testuale, sul lavoro d’archivio e la ricerca storica concreta. Per difendere tale esigenza si impegnò in un’opposizione, a tratti implicita, a tratti tagliente e polemica, contro la malintesa concenzione teoreticistica, alimentata specialmente dal neoidealismo gentiliano, che postulando un rapporto del tutto speciale, quasi identitario, tra filosofia e storia della filosofia, finiva per illudersi che, colta l’idea speculativa felice o articolata la figura di pensiero coerente, si sarebbe poi facilmente trovato nella storia il fatto che le corrispondesse. Ma, più che insistere su rivendicazioni metodologiche, Garin mostrò la fruttuosità del suo modo di fare storia della filosofia con ”ricerche sul campo”, sfornando una serie impressionante di studi, commenti ed edizioni di testi che rimangono quali pietre miliari. Dopo i primi saggi sui moralisti e gli illuministi inglesi, la sua produzione fu dedicata quasi per intero al pensiero umanistico e rinascimentale, divenendo un riferimento obbligato per gli specialisti, e al tempo stesso, grazie allo stile limpido e curato, una lettura colta per il pubblico più ampio. Si ricorderanno la monografia su Giovanni Pico della Mirandola (1937), Filosofi italiani del Quattrocento (1940), Il Rinascimento italiano (1941); e dopo la guerra L’Umanesimo italiano, pubblicato nel 1947 in tedesco prima ancora che in italiano (1952), Medioevo e Rinascimento (1954), La cultura filosofica del Rinascimento italiano (1961), Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano (1965), La cultura del Rinascimento (1967) e Lo zodiaco della vita (1976), che affronta il problema dell’astrologia e del suo controverso significato all’inizio dell’età moderna. In polemica con la storiografia assestata sulle cesure nette e radicali, dunque contro la tesi di una frattura tra Medioevo e Rinascimento, ma anche contro l’assunzione di una continuità senza salti o interruzioni, Garin si sforzò di sfumare e articolare nel modo più aderente possibile ai testi, alle idee e ai movimenti storici effettivi la sua ricostruzione del trapasso dall’età media a quella nuova. Gli studia humanitatis non marcavano per lui una radicale rottura con la scolastica del Medioevo; non erano neppure un semplice movimento letterario e retorico; rappresentavano piuttosto il progressivo formarsi, nel tramonto della civiltà medievale, di una originale visione dell’uomo e della vita, portatrice di una nuova consapevolezza critica e nuovi valori, etici e civili, che avrebbero gettato le basi della modernità. Specialmente dopo la catastrofe bellica, nel pieno della ricostruzione materiale e morale dell’Europa, l’insistenza di Garin sui valori dell’Umanesimo e del Rinascimento andava oltre l’interesse erudito e il piano della ricerca, toccando quello delle scelte filosofiche di fondo: era la testimonianza di un impegno in favore degli ideali intellettuali e civili che in quel movimento storico avevano avuto origine, e che si trattava di rinnovare contro la barbarie manifestatasi nel XX secolo. davvero singolare e significativo che il libro di Garin sull’Umanesimo italiano del 1947, impegnato a valorizzare gli ideali dell’umanità morale e civile, uscisse nella stessa collana, diretta da Ernesto Grassi, e nello stesso anno della Lettera sull’’umanismo” di Heidegger, che argomentava invece contro l’’umanismo”, da lui equiparato agli altri ”ismi” della tradizione metafisica da superare. Dalla ricerca storiografica esercitata sul campo e dalla riflessione metodologica sul modo di fare filosofia, Garin giunse quindi in La filosofia come sapere storico (1959) a delineare con cautela e sobrietà, ma con nettezza e senza disdegnare la polemica con gli avversari, uno storicismo integrale che non lasciava spazio a eccedenze idealistiche e metafisiche oltre la storia, e in cui è riconoscibile l’influenza di Croce e Gramsci. Questa impostazione motiva in modo visibile il taglio e le scelte che caratterizzano la sua documentatissima Storia della filosofia italiana (1947, ampliata in 3 volumi nel 1967) e le sue, significative già per il titolo, Cronache di filosofia italiana 1900-1943 (1955), nonché le sue ricerche su La cultura italiana fra ”800 e ”900 (1962) e Gli editori italiani fra ”800 e ”900 (1991). Comunque sia, e quali che fossero le sue convinzioni filosofiche, dalle pagine di storiografia di Garin traspare un impegno intellettuale volto a rischiarare l’obnubilamento odierno di quella sensibilità civile e morale di cui l’umanesimo italiano fu, come i suoi studi hanno abbondantemente provato, la prima radice moderna. E che ai suoi occhi non smetteva di costituire per l’uomo contemporaneo, lacerato tra ideologie e disincanto, un’insostituibile risorsa simbolica» (Franco Volpi, ”la Repubblica” 30/12/2004). «[...] Egli era diventato, soprattutto dopo la scomparsa di figure come Abbagnano, Dal Pra e Geymonat, un vero e proprio punto di riferimento. A dispetto dell’età che avanzava, egli voleva curare le opere come se fosse la prima volta; desiderava rivedere ogni cosa, rimeditare ancora una volta le sue traduzioni, ricontrollare una citazione come uno studente. [...] Garin è importante per la nostra cultura perché come nessun altro ci ha insegnato a leggere Gramsci e Gentile, perché ci ha lasciato una raccolta di opere di Cartesio che è esemplare, perché ha spiegato in che cosa consisteva il valore filosofico del Rinascimento italiano. Ha diretto per Laterza (editore che ha in catalogo molti suoi titoli) la compianta collana dei Classici della Filosofia dopo la scomparsa di Benedetto Croce, pubblicando sempre quei testi fondamentali che mancavano. stato poi un testimone morale unico. Nei momenti di crisi era il rifugio ideale: all’intervistatore sapeva sempre spiegare quel che stava accadendo e mai con vuote formule. Così, Garin sapeva ammirare Gentile ma scelse l’antifascismo; si avvicinò alla cultura marxista ma non accettò le riduzioni della contestazione e cambiò università in quegli anni per continuare a studiare. Maestro di metodo, nel delineare la via battuta per la sua Storia della filosofia italiana (edita da Einaudi) confessava di aver rivisitato le figure attraverso i ”limiti di esperienze politiche o di meditazioni personali, morali e religiose, piuttosto che affrontati sul terreno metafisico”. Un equilibrio raro, una capacità unica nel distinguere questi aspetti. Fu un uomo che seppe combattere il pessimismo con la volontà e che riusciva ad affascinare chiunque dopo poche parole. Chi scrive ha sempre avuto pudore nel rivolgergli una richiesta, ma Garin ha risposto ogni volta positivamente, con tono tranquillizzante. Sapeva, come i veri maestri, mettere sempre l’interlocutore perfettamente a suo agio: gli bastavano due o tre battute, un sorriso, un gesto. Per il Novecento provò un innamoramento particolare e da questo secolo ebbe forse anche le sue più forti delusioni. Sentiva in esso, e nel realizzarsi di certi avvenimenti, il senso della sconfitta della ragione più che nei tempi bui della Seconda guerra mondiale. Continuò nonostante tutto ad amarlo, anche se la sua anima forse non si era mai allontanata dalla Firenze di Lorenzo il Magnifico» (Armando Torno, ”Corriere della Sera” 30/12/2004). «Non è forse un semplice caso che uno degli ultimi lavori di Eugenio Garin, uscito nel 1991, sia l’ampia e, in molti sensi, appassionata introduzione all’edizione Garzanti delle Opere filosofiche di Giovanni Gentile. In molti sensi, queste pagine sono un fedele autoritratto del professore fiorentino, della sua formazione nella cultura filosofica italiana dei primi decenni del Novecento, del suo insegnamento negli anni successivi alla seconda guerra mondiale e anche della sua presenza politica nelle vicende della sinistra italiana di quell’epoca. Persino il fatto che proprio Garin si sia assunto il compito di curare una ampia silloge delle opera maggiori di Gentile in anni in cui, nonostante lo scarto temporale, il fondatore dell’attualismo era ancora marcato dalla sua adesione al fascismo e dalla estrema avventura con la Repubblica Sociale (alla quale aveva aderito per una sorta di volontà di coerenza nel momento in cui le cose volgevano decisamente al peggio), è denso di significato per la ricostruzione della portata del suo insegnamento nella cultura italiana. Garin era stato infatti, negli anni Cinquanta del secolo, una sorta di mentore del gramscismo italiano, vicino a Togliatti e al suo progetto di preparare il rinnovamento della società italiana attraverso un riconoscimento della continuità con la cultura passata del nostro paese. Ora, un tale proposito, sia pure spinto all’estremo di vedere nel pensiero italiano dell’Ottocento (Rosmini, Gioberti) una anticipazione dell’idealismo hegeliano, era stato proprio uno dei punti fondamentali del programma filosofico di Gentile. In qualche modo, Garin da un lato ereditava tale programma, naturalmente trasformato in senso radicale ma non del tutto sfigurato; e occupandosi di ripresentare alla cultura italiana le opere di Gentile attuava questo stesso programma proprio nei confronti del suo autore. Così concludeva infatti l’introduzione citata: ”Attraverso Gentile, la cultura italiana sperimentò in forme proprie e originali la crisi profonda del pensiero europeo tra Ottocento e Novecento… Con i limiti propri della tradizione nazionale: dalla retorica ”eredità umanistica’ a innegabili chiusure nei confronti delle scienze e del progresso tecnologico… Ciò non toglie che sul piano del pensiero filosofico l’Italia si aprì molto presto, e più di altri grandi paesi europei, a Hegel, e proprio con Gentile.. a cogliere l’importanza del nesso Hegel-Marx e della ”filosofia della prassi’. Non è riduttivo vedere nel lavoro di Eugenio Garin, caratterizzato da un prevalente interesse per la storiografia di alcuni grandi periodi della filosofia occidentale, l’attuazione, potremmo dire secolarizzata e spogliata delle sue implicazioni metafisiche, di questo programma ”gentiliano”. Che, negli anni della ricostruzione italiana del dopoguerra, si colorava di importanti connotazioni politiche, alle quali Garin rimase fedele per tutto il resto della sua vita, anche con minore interesse per la filosofia militante e per la politica in senso stretto. Aveva avuto una parte importante nel grande convegno gramsciano del 1956 a Firenze e nel dibattito che vi fece seguito (di cui dà conto in modo analitico e documentatissimo Giovanni Fornero nel volume IV, 2 della Storia della filosofia di Abbagnano, edizione Utet). Contro alle tendenze che, anche nella cultura di sinistra, tendevano a cercare un rinnovamento della filosofia italiana aprendosi soprattutto agli autori e alle scuole anglosassoni (uno dei principali esponenti di questa tendenza era Giulio Preti, suo collega a Firenze negli stessi anni), Garin - che pure non osteggiò mai queste aperture - sottolineava piuttosto la necessità di ricollegarsi, del resto sulla linea di Gramsci, alla tradizione del pensiero italiano, dall’umanesimo a Vico a De Sanctis, Labriola, Croce e allo stesso Gentile. Non è difficile vedere in questo proposito, oltre all’influenza di Gramsci, anche il parallelo del programma togliattiano di realizzare la trasformazione comunista in Italia come una prosecuzione e compimento del Risorgimento. Con i suoi studi sul pensiero rinascimentale, in polemica contro le troppe semplificazione immanentistiche e antireligiose che vedevano il Rinascimento come il puro e semplice rovesciamento della religiosità medievale, Garin aveva già insegnato a vedere la continuità tra gli inizi del pensiero moderno, e della stessa scienza, e l’eredità del tardo Medio Evo. Una continuità che, da storico ”filologo” quale fu sempre, egli riconosceva al di fuori di ogni presupposto storicistico, come quelli che gravavano sulle prospettive storiografiche delle scuole crociana e gentiliana, tutte protese a cercare «ciò che è vivo e ciò che è morto» nei pensatori del passato, o a documentare precorrimenti di posizioni attuali considerate vere. Anche sul piano della metodologia storiografica in filosofia, Garin fu, insieme a Nicola Abbagnano e a pochi altri, un innovatore che segna anche oggi questa disciplina nelle nostre università. Ma, ancora una volta riprendendo in modo critico e originale la lezione di Croce e di Gentile, il lavoro storiografico fu sempre, per lui, anche lavoro ”teorico”. Ricostruire il pensiero del Rinascimento significava infatti anche rinnovare l’idea di filosofia, che i grandi autori di quell’epoca avevano esercitato come riflessione su concrete esperienze individuali e sociali, per cui filosofare finiva per identificarsi con la costruzione di una interpretazione coerente della propria esperienza nel concreto momento storico, con riflessi decisivi sull’etica: ci sono qui, ancora una volta, elementi significativi dell’eredità di Croce (la filosofia come metodologia della storia) e di Gentile (la filosofia come «prassi»). Si osserverà che forse Garin è troppo pensatore «italiano» per lasciarci una eredità spendibile nella cosmopoli postmoderna. Ma in realtà, molti degli sviluppi recenti della cultura filosofica di derivazione anglosassone stanno scoprendo proprio, magari attraverso la riconsiderazione di Hegel, l’importanza di questi elementi. Noi ci eravamo già ”aperti” ad essi, e anche per merito precipuo di Eugenio Garin» (’La Stampa” 30/12/2004).