Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  maggio 23 Giovedì calendario

RAMACCIONI

RAMACCIONI Silvano Città di Castello (Perugia) 15 gennaio 1939. Dirigente calcistico. Per 28 anni al Milan, prima direttore sportivo e poi team manager. Inizi con la squadra della sua cittadina, a Cesena e a Perugia. In otto stagioni, con gli umbri arrivò ai vertici del grande calcio • «Nel maggio di vent’anni fa era un direttore sportivo in carriera. A quei tempi la dimensione del pallone era tutto sommato accettabile, la carica di direttore generale non era ancora stata inventata, esattamente come quelle di team manager e di responsabile del marketing. Quando Giussi Farina, il possidente terriero veneto che oltre ai francobolli collezionava società di calcio, lo chiamò al Milan, aveva 43 anni e per tutti era ”quello che aveva soffiato Paolo Rossi alla Juve, non uno dei tanti cretini che si occupava di calciomercato”. Umbro di Città di Castello, affabile, colto, arguto, un paio di enormi baffi che ne hanno sempre caratterizzato i tratti somatici (’Semplicemente per distinguermi da mio fratello gemello Tommaso”), ha vissuto la storia del Milan dell’ultimo ventennio dal suo osservatorio privilegiato, dietro le quinte ma non per questo ai margini dell’impero. Inizialmente come direttore sportivo a tempo pieno, successivamente, con l’irruzione di Silvio Berlusconi sulla scena, in qualità di team manager, vale a dire di ufficiale di collegamento tra l’ establishment dirigenziale e la squadra, un incarico cucito su misura per lui. Era affascinato dalla figura di Italo Allodi, il Ramaccioni apprendista stregone (’Lui era quel che oggi si definisce un top manager, io al massimo potevo essere uno dei suoi attendenti”) che contribuì alla leggenda del Perugia di D’Attoma, quello che, nella stagione 1978-79, si piazzò secondo alle spalle del Milan della stella senza perdere una partita, un record per il campionato a 16 squadre poi bissato nel 1991-92 quando, con Capello in panchina, i rossoneri vinsero lo scudetto senza sconfitte nell’ambito della leggendaria striscia di 58 gare di imbattibilità (’Sono due primati storici ed entrambi mi appartengono”). Con lui, in quell’immacolata stagione perugina, lavorava Ilario Castagner che lo avrebbe seguito nell’avventura milanista con partenza dalla serie B: ”Avevo avuto contatti con il presidente della Roma Dino Viola - ricorda - ma Farina mi convinse al primo incontro. Mi disse: lei è permaloso? Sappia che se lo fosse, con me potrebbe avere dei problemi. Che personaggio, Farina! Mi chiamava ”buon uomo”. Passava per essere competente e speculatore. Io non so se fosse competente, di certo non era uno speculatore. Perse il Milan per avere rincorso Paolo Rossi, inseguiva una sua utopia”. Farina, in quel maggio dell’82, avrebbe voluto assumere Eugenio Bersellini, l’allenatore dell’Inter. ”Firmai il contratto con il Milan alla vigilia della partita di Cesena, quella che, nonostante il successo per 3-2, significò la retrocessione. Fui presentato due giorni dopo, il 18 maggio, ed ebbi la possibilità di scegliere io l’allenatore: Farina pensava a Bersellini, ma a me Castagner pareva l’ideale per ripartire dalla serie B. Non mi sbagliai”. In vent’anni trascorsi a raccogliere confidenze, a mediare, a sviluppare la filosofia della grandeur rossonera, ha visto sfilare una fetta consistente di storia del calcio italiano. La rivoluzione berlusconiana non lo ha portato alla ghigliottina ma, anzi, gli ha consentito di affermarsi nella dimensione internazionale del nuovo Milan: ”La prima volta che lo incontrai, il dottor Berlusconi fu estremamente sintetico e mi disse: di lei tutti parlano bene, vediamo”. Ricchissima la galleria di allenatori che con lui hanno condiviso successi leggendari ma pure delusioni cocenti, in un mix di acume tattico e di esasperati rituali scaramantici. Liedholm: ”Non andava a dormire se il numero della sua camera d’albergo, sommandone le cifre, non dava 5. Curava la tecnica con pignoleria: ricordo che a Brunico, durante un ritiro precampionato, i giocatori dovevano uscire dallo spogliatoio palleggiando”. Sacchi: ”Entrava in campo per ultimo ed io vedevo in questo atteggiamento il desiderio di mimare il direttore d’orchestra. Arrigo ha tracciato il solco e tracciare il solco è difficile. Quando tornò, nel dicembre del ”96, fu soprattutto sfortunato. La sconfitta casalinga con il Rosenborg, che ci costrinse a scappare da San Siro, provocò una frattura insanabile. Un giorno radunò la squadra in campo e disse: attenti, qui vedo la serie B”. Capello: ”A Fabio mi legano la passione per la caccia e ricordi favolosi. Lui era tremendamente scaramantico. Una volta, a Pechino, persi in campo una penna Dupont d’oro massiccio con cui, negli anni precedenti, avevo compilato tutte le formazioni del Milan da consegnare all’arbitro. Finita la partita ci mettemmo a cercare nell’erba, sotto i riflettori. Capello urlava: trovala, trovala, ma non la trovammo. Era il ”94 ed avevamo appena centrato l’abbinata scudetto-Champions League: l’anno seguente arrivammo quarti. Una volta, a Padova, il capo ufficio stampa Paolo Tarozzi rovesciò dell’olio sulla tovaglia e lui, furibondo, scaraventò il tavolo davanti a tutti i giocatori. L’anno in cui tornò dopo la stagione a Madrid, gli venne assegnata la tessera federale con un numero che odiava, il 22. Gliela cambiammo senza che lo venisse a sapere ma non servì: alla fine ci classificammo al decimo posto. Era anche molto severo, Capello. Durante una tournée in Cina scoppiò una rissa nello spogliatoio, Di Canio contro Sebastiano Rossi, e a quei tempi chi sbagliava, pagava per davvero. Fui così costretto ad accompagnare Paolo Di Canio all’aereoporto con un biglietto Pechino-Milano”. Attorno al mondo di Silvano Ramaccioni hanno orbitato anche schiere di campioni autentici e di campioni soltanto virtuali, per intenderci Van Basten (’Le relazioni su Marco erano firmate da Zagatti e da Capello, però tutti i contatti e le azioni per portarlo a Milano furono opera di Braida”) e Blissett (’A Milanello si piazzava davanti alle vetrate e guardava fuori, chiaramente voleva evadere. Quando il Milan lo acquistò dal Watford, lui ed Elton John, che era il suo presidente, piansero per un quarto d’ora”), ma anche tipi bizzarri ed autentici baronetti. ”Di tipi strani ne ho visti parecchi ma matto come Massimo Orlando nessuno. Lo avevamo soprannominato Mato Grosso. Ray Wilkins era invece un vero aristocratico inglese. Lo chiamavamo Wiskins senza che, peraltro, lo avessimo mai visto sorseggiare whisky. Dopo la partita gli piaceva bere birra”. La storia del Milan, come tutte le storie, è fatta di episodi che il tempo ha trasformato in pietre miliari. Soprattutto Belgrado con la sua nebbia e Marsiglia con le sue luci: ”Belgrado è l’inizio di tutto. Il vostro dio è molto più importante del nostro mi disse il segretario della Stella Rossa, un signore distinto e triste. Aveva ragione lui. A Marsiglia, invece, fui certamente più colpevole io di Galliani. Ero in campo ed avallai l’idea di tutti: smettere di giocare. La verità è che ci stavano prendendo in giro, i lampioni erano stati spenti apposta per spezzare la partita”. Ormai è in vista del traguardo (pensione e dintorni). Vi si accosta con lo stupore di vent’anni fa e con una serie di certezze: ”Scegliendo il Milan nel 1982 immaginavo un’avventura di un anno o due. Ed invece tra campionati e Coppe ho vinto 18 volte, arrivando nove volte secondo. Con il Milan non sono diventato ricco, la mia ricchezza è un’altra”» (Alberto Costa, ”Corriere della Sera” 13/5/2002).