varie, 4 giugno 2002
BELLOCCHIO
BELLOCCHIO Marco Piacenza 9 novembre 1939. Regista • «[...] ”Sono nato nella guerra, da una famiglia borghese, provinciale, anzi paesana. Mio padre, avvocato a Piacenza, veniva da una famiglia di agrari di Bobbio, non ostile al fascismo. In casa avevamo l’autografo del Duce che si congratulava per la numerosa prole: otto figli. Io ero l’ultimo. Mia madre era religiosa. Mi mandarono prima dai fratelli delle scuole cristiane, poi in liceo a Lodi, dai barnabiti. Un collegio per benestanti e paganti, il che forse contribuì a proteggerci da violenze o devianze. Non ho ricordi drammatici, nulla più di un frate che allunga le mani verso i calzoni corti degli allievi, nulla che ricordi le vicende che abbiamo visto in questi anni al cinema, da Magdalene alla Mala educación di Almodovar. La cifra era semmai la noia, la regola, l’ordine: la messa ogni mattina, che diveniva spesso un prolungamento del sonno. Era il collegio che ho poi raffigurato nel mio film, con le divise e i ritratti dei benemeriti, e il vicerettore che dice allo studente ribelle: noi non educhiamo superuomini, insegniamo ad accettare la realtà, a obbedire alle leggi, a rispettare le istituzioni. stato allora, in quella scuola di mediocrità, che ho smesso di credere in Dio e nella trascendenza, di rappresentare l’angoscia e la paura con le fiamme dell’inferno. Questo non significa ovviamente che l’angoscia e la paura siano passate”. In quasi tutti i film di Bellocchio c’è un ribelle, e c’è un genitore da assassinare. Nel primo, autoprodotto nel 1965 con un mutuo da 20 milioni ottenuto grazie al fratello Piergiorgio, il protagonista annega il fratello e getta nel burrone la madre. ”Il mite vendicatore dell’Appennino, come lo definì Moravia, avrebbe dovuto essere Gianni Morandi. Si era appena rivelato come cantante, e imprevedibilmente accettò la parte. Fu bloccato dai produttori e dal padre che gli disse: se fai quel film ti spezzo le gambe”. Era I pugni in tasca, successo ripetuto due anni dopo con La Cina è vicina, premiato a Venezia dalla critica insieme con La chinoise di Godard. ”Il titolo lo presi da un libro di Enrico Emanuelli del Corriere , che signorilmente me lo concesse subito. Era una satira della vecchia politica ma anche del maoismo di provincia; Godard invece ci credeva davvero, e quando Bertolucci gli chiese adorante un giudizio su Ultimo tango a Parigi rispose mettendogli in mano il libretto rosso. Sbagliava, perché Ultimo tango è un grande film. Poi arrivò il Sessantotto, e divenni maoista anch’io. Alla mia maniera, un po’ appartata. Alla fine del ”67 ero andato a Torino a vedere l’occupazione di Palazzo Campana: incontrai Viale e Luigi Bobbio, mi unii a loro, fui portato anch’io via di peso dalla polizia. Poi entrai nell’Unione dei comunisti marxisti- leninisti ma al contrario di altri non vi portai il patrimonio di famiglia, anche perché era indiviso e la gestione spettava a Piergiorgio. Però andai in Calabria a girare Paola, un film sull’occupazione di case guidata da Enzo Lo Giudice, che diventerà l’aavvocato di Craxi. Filmai il comizio del nostro capo, Aldo Brandirali, oggi assessore di Formigoni. Già allora c’era una venatura cattolica nella nostra idea di rivoluzione: riscattare i poveri, ”servire il popolo’ appunto”. La militanza dura poco, fino all’estate del ”69. ”Quando scoppiò la bomba in piazza Fontana ero a Milano, per una regia al Piccolo, il Timone di Atene . Mi fu chiaro di aver imboccato una strada che non portava a niente. Anche perché noi eravamo nonviolenti, lontanissimi da quel che sarebbe accaduto dopo”. Pure il film di Bellocchio sul caso Moro racconta dell’assassinio di un genitore, anche se alla fine il prigioniero se ne va libero sotto la pioggia. ”Buongiorno notte è stato capito più a destra che a sinistra, a sinistra qualcuno si è irrigidito di fronte all’infedeltà storica. Mi ha criticato pure il mio vecchio amico Goffredo Fofi, che vedevo da ragazzo nelle riunioni dei Quaderni piacentini insieme con Piergiorgio e Grazia Cherchi. Ma non me la sono presa. Non faccio parte della famiglia culturale né di quella cinematografica. Continuo a sentire il richiamo della ribellione, anche se per l’artista si traduce in una rivoluzione formale, attraverso l’arte. E dell’engagement, dell’ingaggio che mi obbliga ad affrontare gli altri”. [...]» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 28/12/2004). «Ammetto che come tanti, anch’io da bambino sono stato coinvolto con passione ed emozione dal richiamo religioso. Ma fino all’adolescenza. Ho smesso di sognare quando ho capito che i miei professori di ginnasio, in un collegio di preti, cercavano di razionalizzare la mia dimensione religioso-fantastica […] Se sei un artista, in qualche modo vivi e crei in un ambito irrazionale. Quindi per me il mistero dell’aldilà si raddoppia. Anche se ho una grande ammirazione per maestri fortemente credenti, come Bresson, Dreyer e lo stesso Bergman. Mi chiedo sempre come abbiano fatto a raggiungere la bellezza artistica e al tempo stesso ad avere fede. Questa alchimia mi affascina, lo ammetto, ma rimango con i piedi per terra. Io mi gioco tutta la vita qui. Come artista, un’autorità trascendente mi limiterebbe […] Da bambino mi raccontavano, proprio durante l’ora di religione, che quella cattolica era una religione esclusiva, tutto il resto, buddismo o induismo, era errore, buio. Oggi la Chiesa è più aperta al dialogo. Penso agli incontri di Assisi. Del resto, c’era una battuta nel film, che però abbiamo tagliato, in cui il cardinale diceva: ”Lo stesso Papa ha detto che al giusto, anche se non credente, è aperto il regno dei cieli” […] Più che un filosofo io ero e resto un ricercatore: assillato da un’insoddisfazione costante che reputo positiva. Il successo è niente, l’importante è arricchirsi dentro. […] Da artista immagino Dio come nel film Il volto di Bergman, dove il mago, con una serie di trucchi e apparizioni, dà un volto misterioso alla divinità, e riesce a travolgere lo scienziato positivista: nella recita, il debole diventa lo studioso. No, da solo non riesco ad immaginare Dio: mentre potrei fare un film sulla figura umana di Gesù Cristo […] Mi è stato chiesto un paio di volte di realizzare un film su Gesù. Ma al primo ciak io ci arrivo quando la testa mi sta per scoppiare di sincerità. No, in questo momento non sarei autentico per un film su Gesù […] Sono l’ultimo di otto figli. Il primogenito era malato di mente, e mia madre aveva degli inconsci sensi di colpa, che riversava su di noi. Io me ne sono andato dalla casa di Piacenza giovanissimo. Negli anni sono tornato a trovare mia madre tante volte: lei mi raccomandava di fare la comunione a Pasqua, nonostante i miei Pugni in tasca o altri film controcorrente. Certo, il suo sorriso, col tempo, si sbiadisce ma anche si addolcisce. Io credo che nel momento in cui ti separi riscopri nell’altro anche le cose belle. Dovete anche pensare che io ero gemello. E il mio gemello è morto tragicamente. Quindi potreste anche perdonare certe mie durezze nei confronti della fede, di un’idea dell’aldilà […] La mia speranza si chiama Elena, è mia figlia, ed è nata dalla relazione con la mia seconda compagna. lei che mi ha ispirato il film L’ora di religione. Prima, per restare con i compagni lei ha frequentato l’ora di religione. Poi l’ha abbandonata, ma non per inquietudini interne, soltanto per iscriversi a scherma. Ecco, gli occhi di Elena sono il mio domani» (Paolo Mosca, ”Il Messaggero” 26/6/2002).