Varie, 4 giugno 2002
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BOLLATI DI SAINT PIERRE Romilda
BOLLATI DI SAINT PIERRE Romilda Parma. Figlia dei baroni di Saint-Pierre. Imprenditore • «Donna seducente e assai concreta [...] Esuberante imprenditrice di successo, padrona della Carpano e della Baratti, due imperi alimentari ereditati nel 1979 dal primo marito Attilio Turati (il secondo fu il leader democristiano Toni Bisaglia)». Sorella dell’editore Giulio: «Esigentissimo, severo innanzitutto con se stesso. Quando preparava la tesi alla Normale, allievo di Luigi Russo e Delio Cantimori, strappava di continuo le pagine, poi appallottolate nel cestino. Io le tiravo fuori, pazientemente le stiravo. Fu grazie ai fogli spiegazzati che riuscì a concludere il lavoro […] Era lui il prediletto della mamma, il più intelligente e meritevole. L’unico maschio di casa, nel senso che mio padre, ingegnere elettronico dal piglio avventuroso – una scheggia nella Grande Guerra ne aveva offeso l’occhio - spesso stava lontano da casa. E la mamma ne soffriva. Suo padre, un aristocratico piemontese, aveva ereditato il casato di Saint-Pierre da un avo premiato per meriti culturali da casa Savoia; la nonna Romilda, parmigiana, s’era lasciata morire: per amore d’un altro. Il barone doveva essere un po’ noioso […] Stavamo così bene, prima che arrivassero tutte quelle orribili signore che me l’hanno strapazzato. Una breve stagione di studi a Parigi, poi Giulio andò a Torino: era il 1949. Giulio Einaudi lo mise a fare il correttore di bozze insieme a Paolo Boringhieri, d’una ricca famiglia svizzera che produceva birra […] Destino vorrà che sotto lo stesso logo, nell’87, si ritroveranno i due ex correttori e grandi amici. Quando seppi che Paolo voleva vendere le azioni, non persi un attimo, e così nacque la Bollati Boringhieri. Per Giulio fu la salvezza, una fuga dall’Einaudi avvelenata dal commissariamento[…] Arrivai a Torino da Parma nel 1950, per le sfilate. Facevo l’indossatrice, e andai a trovare il fratellone. Un attacco di appendicite mi costrinse a una lunga convalescenza. Così cercai una sistemazione più decente, una casa in Corso Ferrucci, ultimo piano. Strana dimora, con l’anticamera rotonda, il living, e in fondo al corridoio le due camere da letto: di Giulio e di noi due sorelle, intanto ci aveva raggiunto anche Mara. Con Giulio viveva allora l’adorata cagna Diana: si assomigliavano in tutto, forse Diana leggeva anche i suoi libri. I soldi erano pochini, ma noi ragazze - da brave parmigiane - allestivamo pietanze saporosissime: ero capace di intrugli pazzeschi, nella bottiglia di gran marca mettevo il liquore dozzinale. Finché un giorno Giovanni Pirelli mi rimbrottò: ma via, troppo sperpero in cucina. Ci rimasi male […] Italo Calvino era divertentissimo, non il musone che è diventato poi. Capelli scuri tipo scugnizzo, dicevano che mi facesse la corte, ma io non me ne sono mai accorta. Mi portava spesso al mare, un giorno nel mare gelato di Ansedonia ho rischiato di annegare: fu lui a salvarmi. Poi c’era Adolfo Occhetto, il papà di Achille. Sua moglie Titta, una biondina dal forte temperamento, fu per me di grande aiuto. M’invitavano spesso a Forte dei Marmi. Una sera, seduti nella pineta a conversare, fummo abbagliati da una gran luce nel cielo. Lì vicino, appoggiata sul tronco d’un albero, l’automobile di Achel, col muso rivolto in alto: il ragazzo, un po’ distratto, aveva centrato in pieno il fusto. Non la passò liscia […] Cesare Pavese lo consideravo un amico, malinconico e più vecchio. La vita per lui era come compiuta. Mi propose una sera di andare in osteria. Scelsi un paio di scarpe sbagliate: bianche e blu con il tacchetto, in tinta con il vestitino adorno di gardenia. Su e giù per la collina, un gran mal di piedi, per quattro giorni me ne rimasi a letto. Se ripenso alle nostre uscite: lavoravo allora nella moda e stavo lì ad annoiarlo con questioni di sartoria. Però lui si divertiva, la frivolezza come un balsamo. Era diverso dagli altri, dolente e un po’ appartato. Tutto il branco impegnato in grandi scorribande, le gite al mare, i bagni notturni, le follie dell’età. Pavese no. Fino a quel giorno d’agosto, nel 1950. La notizia me la diede Giulio, severo. ”Così impari a trattare il cuore degli uomini come barattoli vuoti”. Uno schiaffo, e un gran senso di colpa: per non aver capito. Da allora la vita m’è cambiata» (’la Repubblica” 16/5/2002).