4 giugno 2002
JULIANO Antonio
JULIANO Antonio. Nato a San Giovanni a Teduccio (Napoli) il primo gennaio 1943. Ex calciatore. Centrocampista dotato di piedi buoni e di eccellente visione di gioco, ha militato nel Napoli dal 1962 al 1978, diventando la bandiera del club (del quale fu poi dirigente) e di tutto il calcio del Sud. In nazionale ha collezionato 18 presenze, vincendo il titolo europeo nel 1968. stato vicecampione del mondo in Messico, dove giocò i 17 minuti conclusivi della finale contro il Brasile (1-4): è l’unica presenza di Totonno nei tre Mondiali a cui ha partecipato: Inghilterra ’66, Messico ’70 e Germania ’74. «’Di tre Mondiali ”non giocati” (un vero record!), quello del ’74 fu assolutamente il peggiore. Assistetti impotente a uno sfacelo: sportivo e morale. E non si può davvero dire che chi andò al campo al mio posto fosse meglio di me”. A quasi trent’anni di distanza il più grande leader del calcio del Sud non l’ha ancora mandata giù. E soprattutto, come dice lui, non ha mai mandato giù il fatto di ”non” aver giocato tre Mondiali consecutivi per i quali era stato indubbiamente e meritatamente convocato. ”Nel ’66 Fabbri mi preferì Bulgarelli (e tanto di cappello a Giacomino, che era un fuoriclasse: ma se invece di mandarlo in campo con una gamba sola contro la Corea avessero impiegato me, forse le cose sarebbero cambiate); nel ’70 Valcareggi prese atto del mio cattivo adattamento all’altura e in Messico mi preferì De Sisti (anche se quello è stato l’unico Mondiale in cui sono sceso in campo, per una manciata di minuti e proprio nella finalissima contro il Brasile); nel ’74 sempre Valcareggi mi preferì Capello e sbagliò: perché io ero molto più forte di Fabio (almeno come giocatore: a parole, lo ammetto, è sempre stato ed è ancora più bravo lui)”. Brutto clima quello che avvolgeva l’attempata nazionale italiana ai Mondiali di Germania. ”Riunioni clandestine nelle camere dei ’capi’ che contavano, divergenze fra i troppi ’vertici’ tecnici, minacce di rientri anticipati (ricordate il ’vaffa’ di Chinaglia a Valcareggi dopo la sua sostituzione contro Haiti?). E il tutto nell’ambito di una squadra decisamente in declino”. Vero: furono le ultime partite in azzurro del magico trio Mazzola-Rivera-Riva. E in effetti quello non fu un Mondiale, ma una tromba d’aria su una generazione di campioni. Solo Zoff sopravvisse: e così a lungo da diventare campione del mondo addirittura otto anni dopo. ”Io dormivo proprio in camera con Dino” racconta Juliano. ”Ero, come al solito, l’unico convocato del Napoli e così mi avevano abbinato a qualcuno che, perlomeno, nel Napoli ci aveva giocato. E anche qui non voglio essere malizioso, ma parlando di un mito e di un galantuomo come Zoff, non c’è nulla di male a dirlo. Dino aveva esordito in nazionale come portiere del Napoli: ma, in quanto portiere del Napoli, aveva poi perduto la maglia da titolare; salvo ritrovarla definitivamente come portiere della Juventus. D’altra parte il mondo, allora, andava così. Se no, ripeto, quei Mondiali li avrei disputati io, non Capello!”. La lingua batte dove l’azzurro duole. Ma lui non ci andò leggero neanche allora: proprio alla vigilia della partenza per la Germania convocò una conferenza stampa improvvisata a Coverciano e sparò a zero sui criteri di scelta di Valcareggi: ”In nazionale deve giocarci chi lo merita e non chi è appoggiato dal proprio club”. Questo, in estrema sintesi, il succo del suo ben più lungo e feroce messaggio alla nazione calcistica. Per valutare il da farsi si riunirono le altissime sfere della Federcalcio: Carraro e Allodi ne chiesero l’espulsione dal Gruppo azzurro ”per dare l’esempio”; Valcareggi, temendo la rivolta dell’irrequieta parte plebea dello spogliatoio, implorò l’indulgenza. Franchi decise per il ”buffetto”: ma era chiaro che quella non era una nazionale, era un vulcano in ebollizione. Quella di Juliano in azzurro era stata una carriera a dir poco incomprensibile: vi aveva esordito precocissimamente, grande giovane talento fra i grandi giovani talenti della sua generazione (Mazzola, Rivera, Bulgarelli, De Sisti: una ”concorrenza” qualitativamente mai più ripetuta). Era poi stato prescelto per il rilancio azzurro del dopo-Corea nella Nazionale allenata da Herrera e, ça va sans dire , composta per otto-nove undicesimi dal blocco dell’Inter. ”Herrera mi diede la maglia e il ruolo che nell’Inter aveva Suarez, non so se mi spiego”. Era ancora titolare sia nella semifinale che nella prima finale dei Campionati Europei del ’68: ma nella finale-bis con la Jugoslavia, due nuove mezzali - Mazzola e De Sisti, più freschi - sostituirono lui e Lodetti. Non fu comunque una bocciatura. ”E infatti quell’unico titolo europeo conquistato dall’Italia lo sento profondamente anche mio”. Probabilmente sarebbe stato titolare in Messico, ma - come detto - l’adattamento ai 2000 metri di quota fu davvero ingeneroso col suo fisico di uomo di mare. Ancora una volta giocò la prima partita post-Mondiale (a Berna, nell’ottobre del ’70 contro la Svizzera); ancora una volta, per risparmiarvi quattro anni di racconti, venne convocato nei ”ventidue” del Mondiale successivo, quello di Germania, appunto. Ma allora, il fatto di giocare nel Napoli non era poi così punitivo se continuavano a chiamarla in Nazionale? ”Beh, forse non ero neppure un cattivo giocatore: oggi si parlerebbe di playmaker. Avevo un discreto talento nel dettare i ritmi della squadra: ero un buon costruttore di gioco, tutti i compagni mi davano la palla e tutti sapevano che avrebbero ricevuto qualcosa di ’migliore’. Un po’ come si fa, nella vita, con gli amici di cui ci si fida e a cui ci si confida, sapendo di poter contare sul loro appoggio e sul loro consiglio. Ma il mio Napoli, purtroppo, gli scudetti non li vinceva mai: anzi, spesso smobilitava le squadre migliori. Un anno vendette i suoi due campioni più forti, Zoff e Altafini, alla Juventus. Successe che arrivammo secondi: proprio dietro alla Juventus e proprio per ’colpa’ di Zoff e Altafini che furono decisivi nello scontro diretto contro di noi. A queste condizioni che ’vetrina’ potevo avere io nel mondo del clan-Juve, del clan-Inter, nel clan-Milan, persino del nuovo clan-Lazio che era arrivato in Germania come fresco campione d’Italia?”. E così ”disputò” il suo terzo e ultimo Mondiale da turista. ”Già, ma se anche fossi sceso in campo temo che avrei potuto fare poco: un giocatore, uno solo, non ha mai cambiato la forza di una squadra. Mi vidi tre partite dalla panchina. Il meglio di me lo diedi fuori dal terreno di gioco, andando da Valcareggi assieme a Pino Wilson per pregarlo di non rimandare a casa Chinaglia dopo il famoso litigio. ’Stia tranquillo mister, glielo teniamo buono noi’. In quel caso, perlomeno, mi venne data fiducia”. ”A Mondiale finito fui nuovamente richiamato (stavolta da Bernardini) per l’ennesima nazionale della ’rifondazione’: collezionai così il mio... quarto c.t. personale. Ma quella di Rotterdam contro l’Olanda di Cruyff, di Krol, di Neeskens, di Haan, di Rensenbrink fu veramente la mia ultima partita in azzurro. Accanto a me venne fatto esordire un ragazzo di vent’anni, Giancarlo Antognoni. Anche lui avrebbe scoperto, col tempo, che non sempre basta essere più bravi degli altri per ottenere quello che si pensa di meritare”» (Marino Bartoletti, ”Corriere della Sera” 14/5/2002).