Varie, 4 giugno 2002
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Mennea Pietro
• Barletta 28 giugno 1952. Ex sprinter. Medaglia d’oro dei 200 metri alle Olimpiadi di Mosca (1980) • Cominciò a praticare atletica giovanissimo, con l’Avis Barletta seguito dal professor Mascolo. A 17 anni correva i 300 metri in 36’’7. Cinque partecipazioni alle Olimpiadi, da Monaco ”72 dove conquistò la medaglia di bronzo nei 200 metri, a Seul ”88. Primatista del mondo dei 200 con il 19’’72 firmato nella finale di Città del Messico il 12 settembre ”79, primato rimasto imbattuto fino al 23 giugno ”96 quando Michael Johnson corse in 19’’66 (e poi 19’’32 nella finale olimpica di Atlanta). Mennea è ancora primatista europeo con la performance del Messico. Nei 100 metri vanta un primato di 10’’01, attuale record italiano. Ai campionati mondiali conquistò l’argento con la 4x100 a Helsinki ”83 e il bronzo nei 200 nella stessa edizione. Smise una prima volta nel 1981, rientrò nell’82, si fermò di nuovo e poi tornò per tentare l’ultima avventura olimpica a Seul. Ai campionati europei vinse il bronzo con la 4x100 nel ”71; l’oro nei 200, l’argento nei 100 e nella 4x100 a Roma ”74; l’oro nei 100 e 200 a Praga ”78. In coppa Europa vinse i 200 a Nizza ”75 e si piazzò secondo nei 100 nella stessa edizione battuto dal suo grande avversario, Valery Borzov • «Nell’estate del 1980, un bipede tutto ossa e nervi, nato a Barletta, in perenne fuga da se stesso, sequestra l’Italia per duecento metri. Si chiama Pietro Paolo Mennea, vince la medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca, vent’anni dopo Livio Berruti. L’invasione sovietica dell’Afghanistan, il ”Vietnam rosso”, sconvolge il mondo e mutila i Giochi. Parola d’ordine, boicottaggio. Gli Stati Uniti - per bocca del loro presidente, Jimmy Carter - decidono di non parteciparvi. Molti Paesi, fra i quali la Cina popolare, li seguono. Non la Francia e la Gran Bretagna, però. E neppure l’Italia. Come al solito, ci muoviamo per ultimi, un po’ per pigrizia, un po’ per opportunismo. L’agorà politica vota no. Capo del governo è Francesco Cossiga, il comunicato che diffonde risulta, a un’attenta lettura delle virgole, un invito in codice allo sport di prendere decisioni ”conformi all’interesse nazionale”. Viceversa, il gran sinedrio del Coni, presieduto da Franco Carraro, non tiene conto del suggerimento e vara l’operazione Mosca. Patti chiari: niente sfilata, niente bandiera tricolore, niente inno di Mameli. E fuori tutti gli atleti militari, bloccati dal ministro della Difesa che era, all’epoca, il socialista Lagorio. La volata di Mennea, il volare nel blu di Sara Simeoni, la marcia di Maurizio Damilano: come sarebbe andata senza la guerriglia di Kabul e l’ammutinamento del Foro Italico? [...] Le Olimpiadi zoppe di Mosca vengono solennemente inaugurate il 19 luglio, allo stadio Lenin, da un ondeggiante Leonid Breznev. Come ha ricordato Aldo Grasso nella sua Garzantina dedicata alla tv, ”non potendo disporre di sofisticati mezzi elettronici, la regìa si inventò un gigantesco ”schermo’ umano, composto da seimila soldati dell’Armata Rossa. Quelle figure mobili e cangianti colmavano un vuoto televisivo, il sogno della dittatura del proletariato naufragava in una gora iridata di video-relitti”. Un’idea geniale. Detentore del record mondiale dei duecento metri, Mennea è soprannominato la ”freccia del Sud”. E del Sud si sente, a tutti gli effetti, il simbolo. Non è un altro Berruti, di più: è l’anti-Berruti. Nel fisico, non ha nulla che possa spingere l’esploratore a pronosticargli cento di questi sprint. Mascella scavata, mento alla Totò. Apparentemente fragile, intimamente di ferro. Lo allena Carlo Vittori, un tecnico che non lascia nulla al caso. Il sodalizio sfiora la sindrome di Stoccolma: vittima e aguzzino costretti a vivere sotto lo stesso tetto e a fare gli stessi sogni. Ma uno con fischietto e cronometro, l’altro con i pesi e in non più di venti secondi alla volta. A Berruti bastavano gli avversari. Mennea ha bisogno di nemici. Un ragazzo venuto dal basso, in senso atletico e geografico, discriminato, rabbioso, mai pago anche perché mal pagato: così, almeno, sostiene la mamma. Una scheggia, però. E a Mosca, la sera del 28 luglio, il più veloce fra coloro che avevano accettato di esserci. La finale fu un riassunto della sua vita: lento in avvio, staccato in curva dallo scozzese Allan Wells, poi venti metri, gli ultimi, da urlo. E quel ditino alzato a sorreggere il mondo capovolto, lui, uno di Barletta finalmente numero uno» (’La Stampa” 4/7/2003). « un uomo molto riservato con una spiccata predilezione per le frasi tronche. Lascia molto al non detto, al lavoro di fantasia di chi l´ascolta; non indugia nell’articolazione e rifugge da ogni consecutio. […] Carattere spigoloso e una visione molto personale della vita. Dopo aver corso per vent’anni, ed aver vinto per vent’anni, si dedica agli affari. Apre una concessionaria d’auto. Gli va male. Cocciuto, tenta con una agenzia di viaggi. Chiude. Decide per la toga. S’innamora di Di Pietro: ”Andai a Montenero di Bisaccia e firmai la sottoscrizione in suo favore, mi piaceva l’uomo”. Torna a Barletta, poi va a Roma. Fa l’avvocato e una moltitudine di altre cose: ”Sono tributarista, revisore dei conti, procuratore di calciatori”. Non si sa come né perché ma un giorno lo chiama Di Pietro: vuoi candidarti all’Europarlamento? Lui ci sta. il 1999 e viene eletto. Passa un anno a Bruxelles e si fa vedere all’opera. L’Europa, l’Unione, i problemi transnazionali. Interroga la commissione di Prodi: ”Da notizie apparse sulla stampa nazionale si è appreso che ad Andria, nella zona di Castel del Monte, per l’esattezza quella che interessa il bosco di Finizio, ci sarebbe un’area dove persiste un forte e preoccupante degrado ambientale”. A Bruxelles leggono e girano la missiva al sindaco di Andria, gli pare più giusto. Mennea non ci sta e continua a crocifiggere i commissari. Questa volta tocca a Molfetta: ”Dalla stampa nazionale sono venuto a conoscenza che in una zona della città di Molfetta, in seguito alla realizzazione del lido Scoglio d’Inghilterra….”. I commissari se ne fanno una ragione e decidono di fare i postini: questa è per il sindaco di Molfetta, questa è per Barletta, e così via. Il lato costiero della Puglia a nord di Bari è coperto dal velocista in ogni minuzia. Berlusconi s’accorge che l´atleta, oggi giustamente appesantito da una pancetta parlamentare, può risolvere i problemi della casa della libertà a Barletta. Gli dice: ”Guarda che fare il sindaco è un grande onore. la tua città natale, hai una responsabilità in più. Io avrei tanto voluto fare il sindaco di Milano”. Gli piacciono quelle parole e cambia campo. Serenamente, grazie a un approccio personalissimo verso la politica» (Antonello Caporale, ”la Repubblica” 20/5/2002). «Città del Messico, 2.248 metri sul livello del mare. Era il 12 settembre del 1979. Universiadi. [...] 19’’72, record del mondo, nei 200 metri. ”Il pubblico urlò. Io capii, ma non ero sicuro. Non c’erano tabelloni elettrici, allora. Mi girai. L’unico cronometro era alla partenza. Guardai le cifre che segnalava, poi mi vennero tutti addosso, ci fu una grande confusione. L’avevo cercato e trovato, il record. Non era un caso, mi ero preparato per quello, senza tregua”. Quel giorno l’Italia scoprì un altro Coppi. Veniva dal meridione, era magro, un po’ storto, molto contorto. Figlio di un sarto. Suo padre tagliava abiti, lui si cucì l’atletica addosso. Corse i primi cento in 10’’34 e i secondi in 9’’38. Quell’anno l´Italia capì che correre alla Mennea era una scienza. Il professor Vittori studiava la formula, Pietro Paolo la realizzava. Sempre dandosi del voi, tenendosi lontano dalle confidenze, e dalla leggerezza del dilettantismo. [...] ”Io mi allenavo, sempre. Su 365 giorni l´anno erano 15 quelli in cui non mi mettevo la tuta. A casa mia, a Barletta, tornavo solo tre volte. Per il resto, sempre a Formia. Anche a Natale e a Pasqua. A lavorare, mattina e pomeriggio. Alla sera, mangiavo come un matto. Di tutto, tranne alcolici e cibo piccante. Avevo la fortuna di stare in un albergo che ospitava ricevimenti nuziali, a me andavano i resti. Una pacchia: antipasti, primi, secondi, contorni, frutta, dolci. Ero abituato bene, perché mia madre anche quando non mi allenavo mi prepava la pasta al forno alle tre di pomeriggio. E io in tutta la mia vita non sono mai stato male di stomaco. Mai. E a livello muscolare non mi sono mai strappato, in venti anni di attività. Mai”. [...] Ci sono record che non sfondano solo il tempo, ma che bucano anni. ”Nessuno mi dava molto credito. Quel 19’’72 sembrava un primato destinato a cadere di lì a poco. Infatti è durato 17 anni. Dal ”79 al ”96, al 19’’66 di Michael Johson, un record per me troppo esagerato. [...] Avevo corso veloce anche prima, in due test preuniversiadi, sempre in Messico, 19’’8, tempo manuale. Nebiolo si affrettò a mettere il cronometraggio elettrico. Ero in forma. Avevo gli americani alle spalle, sui 100 e 200. Partecipavo a tutte le gare: la mia stagione cominciava a maggio e finiva a ottobre. Incontrai Muhammad Ali a Las Vegas. Mi presentarono come l’uomo più veloce del mondo. Lui mi squadrò sorpreso: ”Ma tu sei bianco’. Sì, gli risposi, ma sono nero dentro”. Il dottor Pietro Paolo Mennea ha cinque lauree: Isef, scienze motorie, giurisprudenza, scienze politiche, lettere. avvocato, commercialista, revisore contabile, agente di calciatori, giornalista pubblicista, insegnante universitario, è stato deputato al parlamento europeo (´99-2004). Ci sono record che portano lontano. ”Quel mondiale non mi portò nemmeno una lira. Nessun premio, davvero. Guadagnai otto milioni l’anno dopo, ai Giochi di Mosca, vincendo l’oro. E con quei soldi mi comprai sei poltrone Frau. Ogni tanto mia moglie minaccia di buttarle via. Guai a te, la minaccio, quelle sono il mio premio olimpico. Ma è grazie allo sport che ho conosciuto il presidente Pertini. Mi invitò a colazione al Quirinale, il giorno prima del suo addio. Era triste, addolorato di lasciare, mi commosse. Non provo pietà invece per il mondo del calcio. L’ho conosciuto come direttore sportivo della Salernitana. un mondo fatto di unità lavorative scadenti, dove ognuno pensa di fregare l’altro, dove non si parla di responsabilità sociale, dove non esiste una conduzione d’azienda che rispetti i lavoratori. E dove i campioni non capiscono che fare delle cose eccezionali nello sport non ti dà diritti speciali nella vita. Non parlo solo di calciatori, ma di tutti. Dei Pantani vivi e di quelli morti. Di chi cerca di fare in modo che l’uomo sia all’altezza dello sportivo e resta schiacciato dall’impresa [...] Io non ho mai smesso di correre, ma su altre strade, verso altri traguardi. Anche per me ad un certo punto è stato difficile guardarsi allo specchio e decidere: chi vuoi essere? Forse potevo vivere di rendita, invece mi sono rimesso ai blocchi per altre partenze. Non ci sarà più un record come il mio, non in Italia, e non perché non possano nascere campioni. Ma oggi c’è una società e una morale diversa, che rifiuta tutto quello che io ho rappresentato. Io allenavo la fatica con l’allenamento. Ogni giorno, fino all’esaurimento. Ho sofferto, ma ho anche sognato di più”» (Emanuela Audisio, ”la Repubblica” 10/9/2004).