varie, 4 giugno 2002
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Moore Michael
• Davison (Stati Uniti) 23 aprile 1954. Regista. Con Bowling a Columbine ha vinto l’Oscar per il miglior documentario (2002), con Fahrenheit 9/11 la Palma d’Oro a Cannes (2004). «Provocatore, umorista, irriverente e irritante. Grillo parlante d’America [...] diventato un casus belli nazionale e una sorta di pifferaio magico della sinistra americana: è suo il ”Vergogna, Mr. Bush!” ripetuto per tre volte nella notte degli Oscar. diventato una potenza multimediale: oltre ai documentari (citiamo anche Roger and me e Downsize this!), realizza serie televisive d’impegno politico (Tv Nation), è autore del best-seller Stupid white men (in sostanza una requisitoria contro Bush e la sua ”junta” che ha rubato le elezioni), è uno speaker di grande carisma tra i più richiesti e pagati dopo Bill Clinton. Bowling a Columbine, costato 3 milioni di dollari, è il documentario di maggior successo della storia, con incassi di 20 milioni solo in America e oltre 40 in tutto il mondo» (Silvia Bizio, ”la Repubblica” 2/4/2003). «Nel suo paese è considerato un pericolo pubblico, per i suoi documentari di grande successo (contro la General Motors e i suoi licenziamenti, contro la Nike e lo sfruttamento dei bambini) e ha vinto le 23 cause che gli sono state intentate. Ciccione disordinato e molto no global [...] memorabile il suo incontro con Charlton Heston, portavoce della lobby delle armi, nella sua villa di Beverly Hills: odiosa la supponenza di questo anziano Mosè con dentiera, di questo Ben Hur liftato, che parla ”di uomini bianchi fondatori dell’America” e dei ”fastidi dei diritti civili”, che volta le spalle al regista e si allontana in silenzio rifiutandosi di guardare la foto che lui tenta di mostrargli della piccina di 6 anni ammazzata a scuola da un coetaneo con la pistola trovata in casa» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 17/5/2002). «Un bravo artista, divertente, che ha compassione e spirito. [...] Per Moore Bush e i grandi finanzieri stanno tradendo il sogno americano di giustizia e libertà: ”Mio padre faceva l’operaio alla General Motors, andava al lavoro alle 6 e tornava tranquillo a casa alle 2, prima che noi rientrassimo da scuola. Il suo boss gli chiedeva consigli su come costruire automobili migliori. Mi chiedo perché non torni questa America”. una visione ovviamente tarata da nostalgia e rimpianto, che ricorda un mondo dolce e familiare mai esistito, come la campagna solidale di Pier Paolo Pasolini. Il suo impatto con la nostra coscienza, in ansia per la complessità della guerra e della globalità, rende rassicurante il passato perduto. Questa è la chiave politica di Moore, ma l’approccio artistico è, a sorpresa, patriottico, fa lui da portabandiera degli Usa, abbandonati da un’amministrazione ingorda e goffa» (Gianni Riotta, ”Corriere della Sera” 23/5/2004).