Varie, 4 giugno 2002
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VanGaal Louis
• Amsterdam (Olanda) 8 agosto 1951. Allenatore di calcio. Dal 2009/2010 al Bayern Monaco. Si affermò con l’Ajax vincendo la Champions League 1994/1995 (1-0 in finale contro il Milan) e perdendo in finale quella del 1995/1996 (ai rigori contro la Juventus). Ha allenato anche il Barcellona e la nazionale olandese, nel 2009 campione d’Olanda con l’Az • «’Un’aquila è planata sul Bernabeu dispiegando le sue grandi ali”. Così Jorge Valdano, allora allenatore del Real Madrid, per sintetizzare il possesso-palla più elegante, avvolgente e innovativo degli ultimi anni, quello dell’Ajax di Louis Van Gaal all’acme (’95-’96). Un possesso-palla, cioè, uguale e opposto a quelli storici che l’avevano preceduto (vedi Liedholm): uguale nella prevenzione del contropiede avversario e nella ricerca di tempi e modi di gioco utili per attacchi non casuali; diverso perché successivo alla cesura sacchiana e quindi fatalmente più dinamico, complesso e organizzato. Fondendo insomma caratteri classici e moderni del calcio, quel gioco restava nella memoria come una sapiente alternanza di accelerazioni e decelerazioni, contrazioni e distensioni di una squadra non necessariamente corta (come in altri sistemi a zona), ma anzi a volte allungata per coprire il campo in ogni minima partizione (di nuovo l’immagine dell’aquila stilizzata). Da quel momento, Van Gaal non è più riuscito a costruire ensemble così armonici ed esatti. A Barcellona ci ha provato con un trapianto massiccio di ajacidi ma, nonostante risultati tutt’altro che mediocri (due campionati e una Coppa del Re), l’esito tattico-estetico è stato discontinuo e frammentario, anche per la mancata assimilazione di campioni (Rivaldo) che gli sarebbero costati il posto, lasciato dopo le dimissioni del presidente Nunez (maggio 2000). In nazionale, ha scontato invece lo stesso deficit basico di Arrigo Sacchi: quello di essere un allenatore e non un selezionatore, un direttore d’orchestra che necessita di un massacrante cesello quotidiano per arrivare a un proprio suono (a un proprio gioco) inconfondibile. Qui l’uscita (novembre 2001) è stata inevitabile dopo il crash pre-mondiale, anche se il suo contratto con la federcalcio olandese lo avrebbe protetto fino al 2006. In tutti e due i casi, ha pagato (e, va da sé, fatto pagare ai tifosi) la propria totale refrattarietà a un ”pensiero unico” calcistico sempre più diffuso, quello che fonde media e pubblico con il mastice populistico del risultato su tutto e prima di tutto. E ha pagato, in particolare, una radicalità e un rigore di matrice protestante spacciati dai branchi dei demagoghi per arroganza e presunzione. Certo, non è simpatico, non ha la familiarità rustica e un po’ ruffiana di un Carletto Mazzone: ma la sua sgradevolezza è sempre fondata su argomenti e mai sui slogan. A chi lo provoca, lamentando la riduzione delle partite odierne a risse a metà campo, risponde che ”l’essenza del calcio moderno è proprio questa: forgiare spettacolo lavorando in spazi stretti”. A chi lo incalza sul declino della tecnica (peraltro ignorando comicamente quanto si lavori su questo aspetto nella Soccer City dell’Ajax) spiega come la tecnica debba essere funzionale, cioè relativizzata a esigenze di cooperazione tipiche di una squadra che non preveda classismi di ruolo (tipo Lodetti che corre per Rivera e Bonini per Platini). E a chi gli replica che, in questo modo, si mortificano i fuoriclasse obietta - spostando completamente le categorie e i parametri di valutazione - che in una squadra di atleti polivalenti e integrati fra loro tutti sono gregari e tutti fuoriclasse: per trovarne conferma basta scorrere l’Ajax del Grande Slam ”95, con i due De Boer, Blind, Finidi, Kluivert, Litmanen» (Sandro Modeo, ”Corriere della Sera” 15/5/2002).