Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  giugno 07 Venerdì calendario

SELVAGGI

SELVAGGI Franco Pomarico (Matera) 15 maggio 1953. Ex calciatore, era soprannominato "spadino" per la bassa statura (1.72) e la misura ridotta del piede (calzava il 38). Ha giocato in otto squadre (Ternana, Roma, Taranto, Cagliari, Torino, Udinese, Inter e Sambenedettese) per un totale di 355 presenze e 79 gol in sedici campionati (183 e 49 in serie A, 172 e 30 in serie B). Debuttò in azzurro in Italia-Germania Est 0-0, a Udine, il 19 aprile 1981. stato l’unico calciatore lucano ad aver mai indossato la maglia della nazionale. Tre presenze culminate con la partecipazione al Mundial ’82. Era tra i 22 convocati da Bearzot ma non andò mai nemmeno in panchina. "’Sì, quel Mondiale l’ho vinto anch’io. Indipendentemente da quello che dicono gli almanacchi, indipendentemente dalle convenzioni: l’ho vinto contribuendo alla qualificazione dell’Italia, l’ho vinto allenandomi giorno per giorno coi miei compagni che giocavano, l’ho vinto soffrendo con loro, gioendo con loro, incoraggiandoli e spronandoli: l’ho vinto... sopportando Tardelli per quaranta giorni e, soprattutto, per quaranta notti. Sapete che cosa vuol dire stare in camera con Marco Tardelli? Vuol dire non dormire mai!”. Era stato scelto (immolato?) alla causa per la sua pazienza, per il suo buon carattere e per la sua capacità di accontentarsi di poche ore di sonno. Ci voleva qualcuno che dividesse le notti di Spagna con ”Marco il coyote”: e Bearzot gli chiese il sacrificio. ”Tardelli era elettrico come una lampadina: c’erano dei momenti in cui, se fosse già esistito il telefono cellulare, sarebbe bastato appoggiarglielo in mano per ricaricarlo. Dopo certe partite poi...”. Dopo Italia-Argentina, per esempio, quella della ”svolta” e del suo primo gol? ”Già: alle sei di mattina, avevamo ormai parlato di tutto, ma proprio di tutto. Gli dissi ’Marco io dormirei un po’’: lui mi rispose ”dài Franco, non hai proprio voglia di fare due chiacchiere?’ Sia ben chiaro che io venni convocato per meriti calcistici, non come si disse allora, per creare un alibi all’esclusione di Pruzzo. Sia io che Pruzzo eravamo stati provati, avevamo avuto le nostre occasioni in azzurro: ma alla fine Bearzot scelse me. Non ero l’ultimo arrivato: a Cagliari ero qualcuno, anzi ero quasi un idolo; tre campionati, tantissimi gol. Mi aveva voluto e ingaggiato Gigi Riva nella sua bella parentesi da dirigente. Ero stato il primo, dopo di lui, a rappresentare la Sardegna in maglia azzurra. Ero arrivato al Mondiale con tre partite da titolare alle spalle, tutte al fianco di Graziani, che era rimasto ’solo’ a causa dell’infortunio di Bettega. Poi rientrò Paolo Rossi: ma Bearzot mi confermò la fiducia e mi portò con sé [...] Bearzot praticamente utilizzò solo quindici giocatori: credeva molto nel concetto di squadra-tipo. Noi riserve (gente come Dossena, Bordon, Vierchowod, Massaro, lo stesso Causio) avevamo il dovere morale di essere parte integrante di un progetto che aveva la sua base soprattutto nello straordinario affiatamento. E fu proprio nella difesa di questo progetto che Bearzot si rivelò per quello che io ritengo sia stato: cioè il più grande personaggio della storia del calcio italiano che io abbia mai conosciuto [...] A qualificazione avvenuta ci riunimmo nello spogliatoio: ci guardammo in faccia. La sensazione fu che fosse saltato il tappo, che ci fossimo liberati di un peso. ’Ragazzi, il più è fatto’ disse un leader della squadra. ’Adesso ce la giochiamo’. Raccolse solo consensi: e cominciò il trionfo Mundial [...] Io lo vissi senza frustrazioni e con tanto orgoglio. Sì, è vero, non andai mai neanche in panchina perché allora il massimo numero consentito di giocatori a disposizione era di sedici, compreso il secondo portiere. Di noi riserve ci andò una volta Dossena, perché i centrocampisti erano più provati e a rischio. Si fosse infortunato Graziani, come accadde nella finale, sarebbe toccato a me. Ma quella, se Dio vuole, fu l’ultima partita. E che partita! [...] Come facevo sempre, scesi negli spogliatoi durante l’intervallo: si respirava un solo sentimento, quello della tranquillità. Abbinata alla totale e non so se incosciente certezza di vincere. Solamente Cabrini era un po’ stordito, Zoff lo scosse e gli disse: ’Ma non hai capito che grazie al tuo rigore sbagliato adesso il Mondiale non lo perdiamo più?’. E forse Dino aveva ragione: perché fu proprio quell’episodio, a parer mio, a darci l’ultima mano di rabbia che ancora ci mancava. Avessimo segnato subito, chissà, poteva finire come in Messico dodici anni prima, quando la precocità di un nostro gol stimolò la reazione dei tedeschi che portò al loro pareggio. Quando segnò Rossi, invece, era il momento ideale: erano cotti al punto giusto e senza più alcuna possibilità di ribattere [...] Non so descrivere il clima dello spogliatoio a fine partita: non ci sono parole che possano rendere l’idea. Non c’era euforia, c’era la sensazione di essere tutti sospesi a mezz’aria. La baldoria venne dopo, all’Hotel Alameda, sede del nostro ritiro. Lo champagne aveva fatto i suoi effetti: apparve un pallone, cominciammo a giocare nella hall dell’albergo. Insomma, Italia-Germania si concluse molto rumorosamente lì, con ventidue ragazzini-campioni del mondo - finalmente senza distinzione fra riserve e titolari - a rincorrersi e a far danni (eh sì, qualche danno lo facemmo davvero). Anzi non ventidue: ventuno. Mancava Gaetano Scirea: era salito in camera come se nulla fosse successo a leggersi un libro: ci volle Zoff con tutta la sua autorità a farlo scendere e a convincerlo a pazziare un po’ con noi [...] Di quel mondiale mi resta l’indelebile fierezza di esserci stato e un cassetto pieno di maglie azzurre: la numero 1, quella del capitano; la numero 14, quella del mio indimenticabile carnefice notturno Tardelli; la numero 20, quella di Paolo Rossi, il nostro eroe; e la numero 21: la mia. Mai usata, ma - forse anche per questo - rara, preziosa e più azzurra di tutte”" (Marino Bartoletti, ”Corriere della Sera” 22/5/2002).