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 2002  giugno 11 Martedì calendario

Dardenne Luc

• Awirs (Belgio) 10 marzo 1954. Regista. In coppia col fratello Jean-Pierre. A Seraing, periferia industriale di Liegi hanno passato gli anni del loro apprendistato diventando videomilitanti con Armad Gatti. Nel ’78 realizzano una serie di documentari sulla resistenza in Wallonia, le radio libere, le memorie operaie e passano al cinema (per motivi puramente tecnici, dicono) nell’87 con Falsch (Falso) adattamento di una pièce teatrale sull’ultimo dei sopravvissuti di una famiglia sterminata in un campo. Segue Je pense à vous, quindi si affermano con La promesse (’96) sensazionale scoperta della Quinzaine, Rosetta nel ’99 vince la Palma d’oro e il premio per la migliore interpretazione femminile va a Emilie Duquenne, Le Fils (2002) ottiene il premio della migliore interpretazione maschile per Olivier Gourmet, quindi vincono la Palma d’oro 2005 per L’enfant. I fratelli Dardenne sono anche produttori tra gli altri di Costa Gavras e Mahamoud Ben Mahmoud. «[...] Insieme sono una macchina cinema che esplora quella zona della Wallonia percorsa dalla Mosa [...] scenario dei loro film, zona di miniere e industrie siderurgiche chiuse all’origine di una società deteriorata. [...] ”Abbiamo iniziato con Armand Gatti, cineasta di origine italiana, autore di pièce teatrali che lavorava a Parigi ed era venuto a Bruxelles. Lui è stato uno dei primi a lavorare con il video negli anni ’70 e per noi è stato una specie di padre spirituale. Prima di allora non avevamo esperienze di cinema, a parte la intensa frequentazione del cineclub. C’era chi pensava che il mezzo in sé, il video, avrebbe costituito una rivoluzione, ma questa era un’illusione tecnologica. Gatti filmava le testimonianze dei contadini che poi erano inserite nelle sue pièces teatrali e abbiamo cominciato a fare anche noi quel tipo di riprese”. Si girava, raccontano, a Seraing, una roccaforte operaia presso Liegi, dove ognuno sembrava vivere per conto suo. ”Noi abbiamo cercato di farne un luogo di incontro, filmavamo, ci facevamo raccontare storie che per lo più erano storie di lotta contro le ingiustizie e poi le facevamo rivedere a tutti. Allora non c’era la possibilità di montare il video, quindi si facevano le riprese in casa, poi si staccava se c’erano foto da riprendere e se si parlava di qualche località si andava il giorno dopo a girare sul posto, tutto in sequenza. Solo nel ’77 abbiamo avuto la possibilità di utilizzare un tavolo da montaggio. Il primo lavoro fatto in funzione del montaggio è stato Le chant du Rossignol con le testimonianze di chi aveva partecipato alla resistenza contro i nazisti. Si facevano priezioni collettive nei caffè, alla casa del popolo, nei ritrovi giovanili, nelle sale parrocchiali. In Belgio all’epoca è stata creato un canale televisivo che si interessava ai video, i nostri lavori sono stati inseriti in un programma e da quel momento abbiamo sempre lavorato con la televisione francofona. Noi sapevamo che anche in Italia i sindacati usavano riprendere le manifestazioni con il video”. Il passaggio dal video al cinema lo raccontano come l’impossibilità di raggiungere il punto di vista del reale che non fosse in qualche modo pilotato da loro stessi. ”Abbiamo cominciato a sentirci un po’ stretti nella dimensione del documentario e abbiamo avuto voglia di lavorare con attori”. I premi a Cannes a Emilie Dequenne come migliore attrice per Rosetta e a Olivier Gourmet per Le Fils sono il segno di una capacità straordinaria di fare della finzione qualcosa di simile alla realtà ma senza bluffare e infatti, come spiegano, si tratta per loro di documentare una trasformazione in atto nei personaggi, non sempre attori professionisti, ma quando lo sono provenienti dal teatro, perché in Belgio non esistono attori solo di cinema. ”Come lavoriamo? ci prendiamo molto tempo, facciamo lunghi casting, poi andiamo per tre mesi a lavorare con gli attori per vedere come si muovono nello spazio, le camminate, le cadute. Non è un lavoro sul testo, ma sui movimenti e in questa fase portiamo con noi l’operatore che fa riprese video. Poi mettiamo molto tempo anche per la scelta dei costumi. una fase in cui gli attori si stufano, oppure si entusiasmano per qualcosa da indossare ed è precisamente quello che non indosseranno, perché lo scopo è fare in modo che si abbandonino totalmente al personaggio e non rimangano ancorati alla loro immagine di attore o alla loro persona. Cerchiamo di turbarli, non rispondiamo alle loro domande, vogliamo che si abbandinino, che diventino disponibili. In due o tre mesi lo sono completamente e sono loro stessi a trovare la cosa giusta da fare. Così sono contenti tutti: noi abbiamo l’impressione di aver fatto tutto, e anche loro. Se c’è qualcosa che chiediamo è di non recitare, l’indicazione che viene fatta più spesso è ”Sois-là” cioè limitati a stare lì. Ma prima di girare, ci vuole un anno e mezzo per scrivere almeno nove versioni della sceneggiatura, farla vedere al partner francese (in Belgio non si fanno film senza) e alle commissioni. Quando cominciamo a girare lo facciamo nella continuità, dalla prima scena, prima inquadratura a seguire. E giriamo sempre in piano sequenza, anche quando non è necessario, perché in ogni piano si cerca di trovare un ritmo, dai momenti più ampi a quelli più serrati”. E niente musica ”non abbiamo mai trovato il posto giusto per la musica. Nella nostra adolescenza la musica non ci ha aiutato a vivere, come ai nostri amici”. I soldi non sono un problema, rispondono agli allibiti spettatori italiani, i loro film costano poco e in Belgio il problema oggi è caso mai avere più soldi sull’avance des recettes. Sono iscritti a qualche partito? ”No. Dopo la Palma d’oro il partito socialista ci ha invitato a presentarci come senatori, ma abbiamo detto no, non facciamo la politica spettacolo”» (Silvana Silvestri, ”il manifesto” 1/12/2005). «Nostro padre era disegnatore industriale, era l’unico nel paese con un lavoro intellettuale, nelle famiglie dei nostri amici c’erano operai ed artigiani. [...] Il cinema l’abbiamo scoperto tardi. Nostro padre era severissimo, per lui il cinema era il diavolo, ci impediva anche la televisione. I primi film li abbiamo visti dopo le elementari, ma solo come spettatori. Abbiamo fatto un po’ di teatro e poi abbiamo cominciato ad usare la telecamera, scoprendo la ricchezza che può offrire un volto. Da questo deriva labitudine di girare con la macchina a mano e di privilegiare i mutamenti dell’anima» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 24/5/2002). «[...] Se c’è una costante nel cinema dei fratelli Dardenne ”forse è quella di dare voce agli ultimi della società, di raccontare persone che riescono ad uscire dalla solitudine, ad aprirsi al resto del mondo, ad accettare la forza dei sentimenti”, dicono Jean-Pierre e Luc Dardenne [...] ”[...] Noi cerchiamo di portare lo spettatore dentro una storia e attraversarla con lui”, dicono i Dardenne. Che rifiutano per il loro cinema la definizione di ”politico” (’Lo sguardo su un film non deve avere etichette, è fuorviante per lo spettatore che va al cinema aspettandosi qualcosa di preciso e potrebbe restare deluso”), anche perché le loro storie nascono da suggestioni visive. [...] ”Sarebbe disperante pensare che il cinema non abbia alcun effetto. Quando Renoir fece La grande illusione pensò di lanciare un messaggio pacifista. Certo, un film non cambia il mondo, ma può aiutare tanta gente a vedere la realtà sotto una luce diversa. [...]”. Jean-Pierre e Luc Dardenne hanno cominciato insieme, scrivono e girano di comune accordo: ”Sul set, dopo aver provato la sequenza, ci alterniamo, uno alla macchina da presa, l’altro al monitor. Non discutiamo mai davanti alla troupe, ci troviamo da soli dietro al monitor e parliamo, è il nostro confessionale. Accettiamo sempre le rispettive osservazioni, non abbiamo mai litigato”, dicono. Ma Jean-Pierre aggiunge: ”Non è sempre stato così, da piccoli Luc era molto vivace e violento, litigavamo sempre. Ci siamo sfogati allora [...]”» (Maria Pia Fusco, ”la Repubblica” 30/11/2005).