varie, 11 giugno 2002
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DeLaCruz Ulises
• Quito (Ecuador) il 2 agosto 1974. Calciatore. Alla vigilia del match d’esordio dei mondiali 2002 Giovanni Trapattoni, allenatore della nazionale italiana, lo dipinse per giorni come una specie di Pelè. «Appartiene a quella categoria di uomini che la storia mette in vetrina senza che abbiano mai fatto niente per apparirvi. Stava tranquillo e imboscato a Tottori dentro il ritiro dell’Ecuador, la Nazionale del suo Paese, finchè una frase di Giovanni Trapattoni l’ha estratto dall’oscurità e l’ha proiettato sul palcoscenico del Mondiale: ”Dopo due anni ho cambiato l’assetto dell’Italia perchè penso a fermare De la Cruz”. La prima reazione di chi ascoltava il ct fu manzoniana: De la Cruz, chi era costui? Ma in due giorni il fenomeno si è gonfiato e quando abbiamo chiesto a Totti a chi assomigliasse quello sconosciuto sudamericano visto in videocassetta, la risposta è stata: ”a Pelé”. Rideva, l’infame. L’esplosione dell’incredibile incubo trapattoniano ha scatenato nella Nazionale la corsa a chi la prende di più a coglionella: immaginiamo quanto si daranno di gomito, gli azzurri, a sentire la descrizione di certe meraviglie dell’ecuadoregno. Però come la goccia che incide la pietra, le raccomandazioni del ct hanno suscitato un’attenzione per De la Cruz perchè in Italia non siamo più abituati a contrastare chi gioca bene sulle fasce. Da noi quel tipo di calciatore è raro. La Roma che ne ha due, Cafù e Candela, ne ha fatto la base per uno scudetto; il Chievo con due veri esterni ha mandato in crisi mezza serie A. E abbiamo visto la Juve franare a La Coruna per il movimento sulle fasce di Fran e Victor che non sono esattamente la reincarnazione di Djalma Santos. Certo, stupisce e quasi indigna che l’Italia debba trasformare se stessa per bloccare un Carneade dell’Ecuador. ”Comunque questo De la Cruz è forte - aggiunge Totti, ritrovando un momento di sincerità -. Gioca terzino destro e salta quasi sempre l’avversario”. ”Un tipo da prendere con le molle, dovremo costruirgli intorno una gabbia” ha spiegato Cristiano Doni che, se sarà confermato l’assetto con il 4-4-2, sarà il primo a contrastarlo. Una gabbia? Ma se non ne creano più neppure per Zidane o Figo. Sicuramente si esagera. Lo descrivono come il clone di Cafù e non solo per il colore della pelle: se fosse vero ci troveremmo davanti a un clamoroso fenomeno di cecità perchè sono dieci anni che quest’iradiddio gioca al calcio e non c’è mai stato un manager o un maneggione italiano, spagnolo, inglese o tedesco che si sia accorto di lui. L’estate scorsa, a 27 anni, e per sfuggire alle nuove miserie del Sudamerica De la Cruz ha dovuto accettare l’Hibernian di Edimburgo dove è diventato il miglior giocatore del campionato scozzese: l’hanno comprato per un milione di dollari che è un quarantesimo di quanto chiede il Parma per Cannavaro. ”Nel calcio serve la fortuna - racconta Ulisse, scosso dall’improvvisa popolarità -, non sono mai capitato nel posto giusto al momento giusto. Così, a 28 anni, il Mondiale diventa la prima occasione per trovare un contratto in Spagna o in Italia. Perchè è lì che voglio andare. A Edimburgo mi restano tre anni di contratto ma chi ha voglia di restarci?”. Racconta una favola di povertà uguale alle tante che abbiamo conosciuto tra i calciatori sudamericani. Nella sua famiglia, come in quella di Cassius Clay, c’era l’abitudine di imporre ai maschi i nomi classici dell’antichità (lui come l’eroe omerico, suo padre si chianava Tarquinio, come due re di Roma) ma era tutto quanto potevano permettersi di altisonante. Quando suo padre morì, sua madre, Edita Bernardo, nipote di italiani, lavorava dodici ore al giorno per tirare su i cinque figli a Piquiucho, nella provincia di Ibarra: non le fu semplice neppure pagare gli otto dollari con cui liberò il figlio quattordicenne dal contratto con il Tecnico Estudiantil, una squadretta, per mandarlo al Deportivo di Quito, la capitale. Otto dollari. Dopo le dichiarazioni del Trap, Ulisse vale già un milione di volte tanto. ”Ho paura che mi dicano di svegliarmi dal sogno. Ho girato troppe squadre in Ecuador, sono stato anche in Brasile, al Cruzeiro, ma sono ritornato a casa. Quando cominciai giocavo ala destra. Mi divertivo parecchio. Poi decisero di arretrarmi a terzino che da noi non è un vero difensore, perciò in difesa cerco di fare le cose semplici e scatto in avanti. Mi piace giocare con uno o due tocchi al massimo e tento di allargare l’azione, così il campo diventa più grande anche per gli avversari”. E’ alto un po’ meno di un metro e ottanta, è più massiccio di quanto ci si attenderebbe da un atleta che corre rapido. Gli diciamo del Trap e del paragone con Pelè. Come Totti, ride. ”Quelli esagerano per prepararsi a battere l’Ecuador. Loro sono l’Italia, un Paese potente, noi siamo una squadra che dovrà approfittare dei loro errori e non ne dovrà commettere. Sapeste quanta fatica ci è costato costruire una buona Nazionale, anche se alla fine ne è valsa la pena e possiamo creare qualche sorpresa perchè giochiamo insieme da molto tempo”. ”Il calcio italiano l’ho sempre visto in tv. Il Milan è la mia squadra del cuore, come il Barcellona. Sono i miei sogni: se andassi in Spagna mi divertirei con quel tipo di calcio che è frizzante come piace a me, in Italia imparerei la tattica. In un posto o nell’altro l’importante sarà arrivarci”» (Marco Ansaldo, ”La Stampa” 29/5/2002).