Varie, 11 giugno 2002
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PAK DO IK Ex Pyongyang (Corea del Nord) 17 marzo 1942. Ex calciatore. Segnò il gol che ai mondiali di calcio del 1966 determinò la più clamorosa sconfitta della nazionale di italiana
PAK DO IK Ex Pyongyang (Corea del Nord) 17 marzo 1942. Ex calciatore. Segnò il gol che ai mondiali di calcio del 1966 determinò la più clamorosa sconfitta della nazionale di italiana. «Ha i capelli bianchi, porta gli occhiali, orologio d’oro, una spillina della Fifa sulla cravatta, è supervisore dell’attività fisica nelle scuole. Arriva con una Mercedes rossa, non perfetta, ma pur sempre Mercedes. Certo che lo sa che al ritorno in Italia i tifosi tirarono pomodori agli azzurri, al grido di Corea, Corea. “Bene, hanno fatto bene”. Scusi? “Cosa pretedendevano i giocatori dopo la figuraccia, gli applausi? Voi eravate l’Italia, noi nessuno. Eravamo così tagliati fuori che non sapevamo neanche cosa fosse un fallo”. Sia buono, Pak. “Sono sincero, voi giocavate in dieci perché Bulgarelli si era fatto male, ma restavate dei maestri: con quel gran difensore di Facchetti, con la rapidità di Mazzola, con l’organizzazione di Rivera. Avreste potuto segnare, ci siete andati vicini. Solo che l’Italia non c’era con la testa, mai vista una squadra così isterica e nervosa. E’ vero che noi avevamo fatto due anni di ritiro, andando a ripassare il calcio in Russia, ma a parte l’entusiasmo rispetto a voi eravamo piccoli. Ricordo l’emozione con cui chiamai casa per avvisare un annunciatore della radio che avevamo vinto. Era in lacrime. Quella sera abbiamo gridato un po’ di ritornelli, non è vero che ci siamo ubriacati, io tra l’altro non bevo. E non è vero che al ritorno siamo stati puniti, anzi all’arrivo mi hanno portato sulle spalle, e io che prima mi occupavo di editoria scolastica, mi misi a fare l’allenatore di calcio. Di quella squadra cinque sono morti di cancro. Sa che non sono mai stato in Italia? Non credo di essere ben visto, chissà se mi vogliono ancora male”. La Corea poi affondò con il Portogallo. “Appunto perché eravamo ingenui. Stavamo 3-0 per noi, nessuno pensò a difendere il risultato, a gestire la partita, con il risultato che Eusebio ci fece secchi”. Andò male all’Italia, ma fu anche l’ultima volta della Corea. “E’ un problema di generazione, con il pallone nessuno ci ha più saputo fare. Mi piace quel vostro giocatore con il codino, porta il numero 10, trovo bravo anche Zidane, per come pensa al gioco, sa io sono rimasto fermo a Bobby Charlton. Tempo fa da noi è venuto un allenatore tedesco, ma non ha funzionato, cosa ne sanno gli stranieri di come reagisce il nostro fisico? Per correre bisogna mangiare, avere le forze. Ai nostri tempi non era un problema, ma oggi tutto è diventato più difficile”» (Emanuela Audisio, “la Repubblica” 29/5/2002). «Non c’è un coreano che capirebbe se gli dicessimo che per un italiano un evento sgradevole è sempre “una Corea”, cioè un disastro: ci guarderebbe con gli occhi tonti di questi tassisti che si confondono persino sui nomi degli alberghi più famosi di Seul. Pak Doo Ik non suscita emozioni, il ricordo dell’1-0 di Middlesbrough appartiene a un altro Paese. […] Adesso ha 66 anni, se la sua anagrafe è corretta. Ne aveva trenta quando infilò ad Albertosi il gol più citato della nostra storia, l’altra faccia dell’urlo di Tardelli in Spagna. “Ero tra i più giovani di una squadra vecchia che finì con quell’incredibile Mondiale”, ha raccontato. Per anni lui e i suoi compagni sono stati inghiottiti dal buio. “L’ultima immagine che ho di loro - racconta Gigi Riva, che sulle tribune all’Ayresome Park aveva assistito incredulo alla disfatta - è mentre si infilano nel tunnel, dietro ai miei compagni con le facce livide. Il loro spogliatoio era dall’altra parte del corridoio: noi stavamo dentro lo stanzone, Fabbri era pallido e ripeteva che non avremmo potuto ritornare in Italia mentre Artemio Franchi insisteva che eravamo partiti insieme e saremmo tornati insieme. Andammo in treno a Londra, dove restammo chiusi in un albergo vicino all’aeroporto fino all’ora del decollo. L’aereo ebbe due ore di ritardo e fu una fortuna perché a Genova, dove atterrammo nella notte, molta gente era andata a casa. Furono giorni di vergogna, la gente ci odiava: quando giunsi a Milano, dovetti minacciare il taxista perché non voleva portarmi a casa”. Pak Doo Ik in quelle stesse ore stava male. Gastrite. Altri misteri si accumulano attorno a quella notte. I coreani correvano molto, troppo. Valcareggi spiandoli per conto di Edmondo Fabbri, il ct, aveva detto che si muovevano come Ridolini. “Correvano e correvano, chi dei nostri aveva la palla se ne trovava attorno tre - racconta Riva -. Tuttavia se non avessimo sbagliato 7-8 palle gol davanti alla porta, la Corea non avrebbe segnato nessun italiano di quella generazione”. Riva non spande il seme del sospetto. Altri lo fecero: il moto perpetuo dei coreani indusse a immaginare le più strane pratiche che oggi chiameremmo doping. C’è di più. Pierre Rigoulot ha raccontato nel libro L’ultimo Gulag che i coreani festeggiarono la vittoria con le donne e la birra e, per questo, Kim il Sung, il dittatore morto nel 1994, li punì al rientro per la loro condotta borghese e reazionaria. Gli eroi di Middlesbrough sarebbero finiti per vent’anni nel campo di concentramento di Yadok. Uno di loro, Pak Sung Jin, sarebbe stato ancora in carcere quando lo incontrò un giovanissimo dissidente che fornì le testimonianze a Rigoulot: “Si nutriva di insetti”. La storia di quella squadra si è trasformata dopo quarant’anni in un momento di guerra fredda, tra informazione e disinformazione. Pak Doo Ik si sarebbe salvato da quella “purga” soltanto perché quella notte non festeggiò: gli duoleva la pancia. La troupe inglese del film La partita della loro vita offre invece una versione diversa dopo aver intervistato i 7 reduci di quella missione straordinaria, la prima e finora unica qualificazione di una squadra asiatica ai quarti di finale. Pak Doo Ik ha raccontato che la notte dormirono nel seminario cattolico di Liverpool che l’Italia aveva prenotato sicura di passare il turno e poi lasciato. “In quell’ambiente cupo, con i crocifissi alle pareti, ero così spaventato che chiesi a Han Bong Jin di dormire nella mia stessa camera e quasi non chiudemmo occhio: con il Portogallo eravamo distrutti, segnammo tre gol in 25 minuti, poi non eravamo abbastanza smaliziati da tenere il vantaggio. Con più esperienza saremmo andati avanti ma Kim Il Sung, il nostro Grande Leader, ci aveva chiesto di vincere una partita o due e chiunque sapeva che non si poteva pretendere di più da noi. Avemmo grandi onori”. Il gulag? Non se ne parla. Spunta addirittura un filmato dell’epoca con la folla che accoglie i giocatori a Pyongyang. Verità o menzogna? Pak Doo Ik non lo svelerà mai. Per lui quell’impresa non va sporcata. “Gli inglesi erano stati nostri nemici nella guerra ma a Middlesbrough ci accolsero bene e noi giocavamo con il nostro popolo alle spalle. Chollima (cavallo alato della mitologia cinese, simbolo della velocità e dell’energia, ndr) ci portò lontano”. L’Italia non chiuse mai quella ferita. Pak Doo Ik scelse poi di fare l’allenatore, lo Stato gli assegnò un appartamentino, ha un figlio e un nipote che si sono dati al calcio. I soldi? “Da noi non hanno troppa importanza, quello che ci serve è gratis”. Una decina di anni fa lo si vide un paio di volte all’estero, come allenatore della Nazionale, e domani forse sarà qui. Pak Doo Ik, il “dentista coreano” come lo dipinsero i giornalisti cui non parve vero di inventarsi la leggenda di un insolito mestiere per chi era, in realtà, un maestro di ginnastica. Fu così bella che nel sito americano sui dentisti più celebri del mondo, l’hanno inserito alla voce Corea del Nord, lui che non ha mai curato una gengiva e che da 36 anni lascia negli italiani un nervo scoperto che duole ancora» (“La Stampa”, 30/5/2002).