Varie, 11 giugno 2002
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Zebina Jonathan
• Parigi (Francia) 19 luglio 1978. Calciatore. Della Juventus, squadra con la quale ha vinto gli scudetti 2005 e 2006 (poi revocati) • Arrivato in Italia nel 1998 per giocare col Cagliari, nel 2000 si è trasferito alla Roma vincendo subito lo scudetto. Dal 2004/2005 alla Juve, ha rivinto lo scudetto al primo colpo. «Dà il meglio di sé nella difesa a tre: fisicamente dotatissimo eccede (e paga) nell’irruenza nei tackle. Ricorda un po’ il connazionale Thuram» (Dizionario del Calcio Italiano, a cura di Marco Sappino, Baldini&Castoldi 2000). «Lo scudetto, appena arrivato a Roma, non me lo sono goduto. Ho avuto tutto, troppo in fretta. Nessuno in quell’annata ha apprezzato le mie prove. Non ho mai sentito dire che ero un buon giocatore. La mia difficoltà maggiore è stata la grande responsabilità di dover prendere il posto di Aldair, non uno qualsiasi. Avevo sempre gli occhi puntati addosso, il paragone era automatico ad ogni giocata. Sono partito con l’handicap. Io non avevo un nome, gli altri sì, erano tutti nazionali. E per un difensore, in questo senso, tutto è ancora più difficile: i miei errori diventavano più evidenti. Eppure è stata una stagione fantastica, se tornassi indietro me lo godrei di più, anche perché ora so che è molto, molto difficile vincere a Roma. E ripenso anche al giorno di Roma-Parma: mi sono commosso quando sentii Aldair dire che avrebbe voluto giocare quella partita più di ogni altra […] Io lavoro, do il massimo, se mi guardo allo specchio sarò sempre a posto con la coscienza. In campo non faccio mai il furbo, non alzo la mano chiamando il fuorigioco. Mi espongo, tento un passaggio difficile per dare un senso al nostro gioco. Adesso ho capito che a volte è meglio buttar via la palla... Sono il primo a pretendere di più da Zebina, so quando sbaglio, ma... […] la cosa che mi ha dato molto fastidio è di non aver mai sentito dire che la Roma ha vinto una partita anche per merito mio. Solo il contrario, per un errore e una sconfitta. Sempre e solo colpa mia. Per molto tempo mi sono aspettato un po’ di riconoscenza, un applauso. Che qualcuno parlasse bene di me. Pur non capendo, ho accettato. Perché mi giravo e vedevo Samuel, Emerson e Cafu e mi chiedevo: perché sempre a me la colpa e mai agli altri? Il fastidio è aumentato, poi. E dopo essere stato sempre gentile, ho detto basta. […] Io, a Roma, sarò andato in discoteca due o tre volte. Non mi piace andarci qui. Tutti ti guardano. Se hai un bicchiere d’acqua in mano è vodka. Non mi diverto. Vado in discoteca quando sono in Francia, quando sto lontano da Roma. Perché devo farmi vedere in discoteca a Roma, per alimentare altre chiacchiere? Tra l’altro io qui vivo con i miei genitori, faccio vita sana […] Una volta mi ha chiamato un uomo della nettezza urbana. Sono andato verso di lui. Mi ha urlato: ”Ogni gol è colpa tua!”» (Ugo Trani, ”Il Messaggero” 25/10/2002). «Io difensore? Tutta colpa di Henry. Avevamo undici, dodici anni, giocavamo a Paliseau, nella cintura di Parigi. Io ero già bello grosso e facevo l’attaccante. Segnavo pure qualche gol. Poi arrivò Thierry e l’allenatore mi disse: tu adesso ti piazzi più dietro. Meglio così, no?. [...] Quasi tre anni senza un applauso. Sembrava che la gente non mi sopportasse: si perdeva, e la colpa era puntualmente mia. Si vinceva, e mai uno che si ricordasse del mio contributo. Vedevano solo le zebinate , non la mia voglia di emergere. Poi una sera, un paio di anni fa contro l’Udinese all’Olimpico, rimasi di stucco dopo un passaggio a Totti. Nell’aria, avevo sentito all’improvviso un rumore strano: erano applausi... Non ci ero abituato. [...] successo che a forza di sbattere la testa contro un muro sono arrivato dove sognavo. Sapevo che era una questione di volontà. Dovevo crescere, nella concentrazione prima che nel gioco. Ce l’ho fatta, e tutto il resto è venuto di conseguenza: gli applausi, le critiche favorevoli. Ora le zebinate non attirano fischi. [...] Capello può essere fiero della sua scommessa vinta: mi ha voluto qui, mi ha imposto in ogni situazione. Merito anche della mia testardaggine: volevo a ogni costo diventare qualcuno nella Roma, la squadra guidata dal tecnico che il mio vecchio allenatore nel Cannes, Troin, mi consigliò di considerare un traguardo. Un giorno mi disse: devi impegnarti per riuscire ad andare a lavorare con lui, è il migliore al mondo. [...] Mai pensato: non ne posso più? Solo per cinque minuti , a ottobre del 2002, quando mi aggredirono all’uscita di Trigoria. Lo urlai proprio lì, a chi mi insultava: non sono l’unico colpevole, ma se volete me ne vado subito. Uno sfogo di cinque minuti, appunto. Mosso soprattutto dall’amore per la mia famiglia: temevo soffrissero troppo. Pensavo a mio padre Denis, il mio primo tifoso. E a mio fratello Alexis, che può diventare un campione di golf. Io no, io ho sempre creduto di potermi affermare qui. E infatti sono rimasto. [...] A Roma sto magnificamente. La città è fantastica, la squadra giovane, forte, guidata da un grande tecnico. Difficile trovare un altro posto così. A volte ci ho pensato: un’avventura in Inghilterra non mi spiacerebbe, se proprio dovessi cambiare. Ma io voglio restare. [...] Roma è fantastica. C’è la storia e c’è il verde. Più che a Parigi, che adoro ma non so se ci vivrei. Io, del resto, sono uno strano parigino: per metà ho sangue caraibico, della Martinica. Come nelle isole, mi piace scherzare e ridere, ad esempio, ma sono anche permaloso. A un tifoso che mi urlò che ero uscito dalla giungla risposi: "Forse sì, solo che nella mia giungla c’era la Tour Eiffel"» (Stefano Petrucci, ”Corriere della Sera” 20/11/2003).