Varie, 17 giugno 2002
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Arena Bruce
• Brooklyn (Stati Uniti) 21 settembre 1951. Allenatore della nazionale di calcio degli Stati Uniti ai mondiali del 2002 • «Il padre muratore clandestino senza permesso di residenza, la madre che gli faceva i panini da portare allo stadio degli Yankees [...] Un piccolotto rotondo con un ginocchio cronicamente sbiellato da quando, dall’alto del suo metro e 70, osava giocare in porta per una squadretta di semi pro, il Tacoma, e gli frantumarono un menisco. [...] Il coach che ha reinventato ”el futbol” nelle terra del soccer vincendo tutti i titoli nazionali per college e due campionati di fila dei professionisti [...] Con quella faccia e quel naso da peso medio messicano pestato nei ring, è uno che ha sempre vinto. Ha vinto la battaglia per uscire dal calderone di Brooklyn, che ha consumato tanti aspiranti americani. Ha vinto la concorrenza con migliaia di studenti ricchi e waspissimi, per farsi accettare da una sussiegosa Università della Ivy League, la Cornell, pur venendo da una scuoletta pubblica locale. Ha vinto giocando a lacrosse, sport di lontana origine indiana, dove la statura conta poco perché si pratica con lunghi bastoni simili a reti da pesca. Ha vinto giocando a calcio da portiere per il Tacoma, dal quale riuscì addirittura a entrare in nazionale, sia pure per una partita sola contro Israele. Ha stravinto come coach della Virginia University, la Juventus del soccer universitario. E quando è stata messa assieme la raffazzonata e sempre boccheggiante ”Lega Calcio” americana, ha preso un branco di nullità indigene e di mezze tacche sudamericane portandole a vincere i primi due scudetti e addirittura la Champions League, battendo in finale i campioni messicani del Toluca» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 6/6/2002) • «’[...] Posso andare al bar quando voglio, non c’è nessuno che mi riconosca. Non sono mica Lippi. In America i risultati della nazionale di calcio non finiscono nemmeno sui giornali. come se giocassimo sempre in trasferta e sempre in posti, parlo del Centro-America, Messico, Guatemala, Costa Rica, Panama, dove i nostri avversari portano tutto il paese allo stadio. Avremmo bisogno di un po’ di marketing attorno alla squadra, dal punto di vista della riconoscibilità e della comunicazione siamo un disastro. Perfino le donne ci hanno battuto. Le nostre calciatrici sono star, vanno in prima pagina, noi no [...] Il calcio non riesce ad essere l’America, la nazione non lo usa come specchio. Hanno pure provato con i ricchi e famosi, ai tempi di Pelè e Beckenbauer, ma niente da fare. Siamo gli eterni promettenti, ci illuminiamo un po’, senza accenderci mai [...] L’America non ama i punteggi bassi, i tatticismi sofisticati, vuole vedere l’azione [...] Non solo. Ma noi siamo gli indiani, gli sconfitti, e questo al paese non piace. Perché identificarsi con i perdenti? [...]» (e. a., ”la Repubblica” 4/1/2006).