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 2002  giugno 17 Lunedì calendario

Breum Johannes

• . «Quando decise di avventurarsi in Italia alla ricerca di nuovi orizzonti per la sua professione, mai avrebbe immaginato di ritrovarsi coinvolto nell’ennesima piccola-grande rivoluzione calcistica. Era il 1995 e lui, danese di Copenaghen, laureato in Scienze Umane, dopo avere affinato l’arte della chiropratica in Inghilterra prese il coraggio a due mani, puntando su Ivrea (’C’era da rilevare uno studio medico già esistente, mi innamorai della città, tutto intorno c’erano montagne e laghi, decisi di tentare il grande salto”) e, di fatto, affrontando una scommessa al buio. Oggi che non ha ancora compiuto 38 anni, è diventato l’unico straniero della nazionale di Trapattoni, ingaggiato per l’avventura nel Mondiale 2002 dell’altro mondo grazie alle pressioni di capitan Maldini. ”Al Milan sono arrivato nel ’99, l’anno dopo lo scudetto. Avevo già iniziato a collaborare con Jean Pierre Merseeman, che ora è il coordinatore sanitario rossonero, poi ho seguito qualche giocatore prima di essere assunto a tempo pieno”. La rivoluzione di cui il ”mago” danese è stato uno dei pionieri si riferisce all’introduzione della chiropratica come terapia nella gestione degli infortuni, ma pure nella prevenzione di possibili incidenti. ”Fino a una quindicina di anni orsono la maggior parte dei club calcistici non aveva un medico a tempo pieno e viaggiava soltanto con un massaggiatore al seguito. Dieci anni fa il preparatore atletico era un’eccezione e i fisioterapisti sono stati introdotti soltanto di recente. I margini di miglioramento in ambito professionistico sono ancora notevoli [...] In Italia la chiropratica è ancora poco conosciuta. La potremmo definire come una filosofia ed un’arte olistica basata su di una sorta di triangolo della salute, con un lato strutturale, uno biochimico ed uno mentale. Il chiropratico dedica particolare attenzione alla colonna vertebrale e alle sue implicazioni neurologiche e muscolari, senza peraltro ricorrere né alla chirurgia né alla medicina”. Riservato, attentissimo a non inquinare gli equilibri di un team di lavoro in cui si è affacciato per la prima volta, ha potuto apprezzare dall’interno la tanto celebrata monoliticità del gruppo azzurro: ”Ho trovato davvero un ambiente molto positivo, tanto nei confronti del lavoro, quanto in relazione al tempo libero. I vostri giocatori non sono stelle ma atleti seri. Sanno stare molto bene assieme, parlano tra di loro degli argomenti più diversi e, quando non sono impegnati negli allenamenti, tirano fuori tutta l’allegria che hanno dentro. Si vede che l’Europeo di due anni fa era servito a rompere il ghiaccio, perché l’affiatamento è eccellente. E a colpire chi, come me, vi viene ammesso per la prima volta, è lo spirito che si respira attorno a questa squadra”. [...] Si considera a pieno titolo uno di noi (’Non mi sento per nulla uno straniero, sento anzi di appartenere alla squadra come tutti gli altri”), al punto da cingere in un abbraccio i vicini di panchina, proprio come fanno gli undici titolari in campo, durante l’esecuzione dell’inno di Mameli. ”Che io, peraltro, non canto e che, a quanto vedo, nessuno sta cantando. Comunque il vostro inno nazionale lo conosco alla perfezione, parole e musica. Il fatto è che non sono abituato a cantare e non cantavo neppure l’inno danese. Sono però orgoglioso di rappresentare l’Italia ai Mondiali e, se una persona non può scegliere dove nascere, può però scegliere dove vivere: io ho scelto il vostro Paese”» (Alberto Costa, ”Corriere della Sera” 1/6/2002).