Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2002  giugno 17 Lunedì calendario

Solgenitsyn Aleksandr

• Kislovodsk (Russia) 11 dicembre 1918, Mosca (Russia) 3 agosto 2008. Scrittore. Combatte in guerra nell’Armata rossa ed è arrestato nel 1945 per aver criticato Stalin in una lettera. Dopo diversi anni di prigionia, durante i quali guarisce da un cancro, viene liberato nel 1956, grazie alla «destalinizzazione». La sua fama inizia nel 1962 con la pubblicazione del breve romanzo Una giornata di Ivan Denisovic, in cui racconta la vita quotidiana in un lager comunista. Ben presto entra in conflitto con il regime. Nel 1970 riceve il premio Nobel, ma nel 1974 è costretto a lasciare l’Urss, per via dell’uscita all’estero di Arcipelago Gulag, una forte denuncia del sistema repressivo sovietico. Inizialmente risiede a Zurigo, poi si trasferisce negli Usa, in Vermont, dove rimane fino al 1994, anno del ritorno in Russia. Tra le sue opere: Divisione Cancro, Il primo cerchio, La quercia e il vitello, La ruota rossa, Duecento anni insieme. «Nato un anno dopo il fatale 1917, precisamente l’11 dicembre 1918, a Kislovodsk (nel Caucaso), ha dimostrato di avere un’energia vitale e morale che, nonostante prove inenarrabili (la guerra, il Gulag, il cancro, le persecuzioni e le incomprensioni), è risultata più duratura di quella della rivoluzione comunista, dapprima anche da lui accettata, poi criticata e oppugnata […] Per Solgenitsyn gli orrori del ventesimo secolo, col suo oscurantismo totalitario e i suoi genocidi materiali e spirituali, sono il frutto dell’involuzione di quel grande ideale laico, culminato nell’Illuminismo, che ha preteso di sostituirsi al cristianesimo, del quale ha fatto propri i valori più alti di libertà e di equità, ma recidendone la radice trascendente. […]» (Vittorio Strada, ”Corriere della Sera” 27/3/2005). «Tutta la mia vita ho fatto sia un lavoro letterario che di ricerca. Arcipelago Gulag è un’opera in gran parte di ricerca; La Ruota rossa, un misto fra letteratura e ricerca» (Tatiana Al Donina, ”la Repubblica” 2/6/2002). «A fine ottobre del 1962 il mondo stava col fiato sospeso per la crisi di Cuba; negli stessi giorni, a Mosca, stava maturando un evento di tutt’altra natura, che ha segnato la cultura della seconda metà del XX secolo: era in preparazione il numero di ”Novyj mir con la pòvest” (romanzo breve, con un’unica linea narrativa) d’un maturo scrittore esordiente: Una giornata di Ivàn Denìsovic di Aleksàndr Solgenitsyn. Quando i lettori della rivista diretta da Aleksàndr Tvardòvskij lessero l’Ivan Denìsovic e si cominciarono a chiedere chi fosse lo sconosciuto autore, pochi sapevano che l’operazione di pubblicare un’opera sui campi di lavoro staliniani era iniziata un anno prima ed era stata oltremodo complessa. Ivan Denìsovic era stato scritto nel 1959; Solgenitsyn, ”riabilitato” nel 1956, insegnava allora matematica in una scuola media di Rjazàn e dopo il XXII Congresso decise di uscire allo scoperto con una redazione ”alleggerita” del romanzo, che allora si chiamava SC-854 (il numero di matricola del protagonista; il titolo definitivo verrà in seguito, dopo Una giornata dalla vita d’uno ”zèk”). Così, a inizio novembre 1961 lo affidò a un ex-compagno di prigionia, il germanista Lev Kopelev, perché lo portasse alla redazione della rivista più autorevole e più ”liberale” nell’Urss del tempo; un mese dopo seppe che Tvardovskij ne era rimasto entusiasta. Cominciò allora la manovra per giungere alla pubblicazione, che Zorès Medvèd´ev ricostruì nel libro 10 anni dopo Ivan Denìsovic (1973), e che lo stesso Solgenitsyn ha narrato in dettaglio nella sua autobiografia politico-letteraria La quercia e il vitello (1975), offrendo uno spaccato straordinario di ”vita sovietica al tempo del disgelo”. Tvardovskij provvide anzitutto ad assicurasi l’assenso di illustri scrittori e solo dopo si rivolse ai ”politici”; Krusciov, forte a sua volta del parere positivo di Mikojàn, ne investì il Praesidium del Comitato Centrale, facendo tirare 25 copie ”di saggio”. Il 20 ottobre Tvardovskij ebbe l’agognato assenso (’Krusciov certo non sapeva - commenta Solgenitsyn -, che mentre discuteva pacatamente con Tvardovskij di letteratura, a Washington già si allestivano i pannelli con le fotografie dei missili sovietici a Cuba”); le bozze furono corrette a inizio novembre (nel frattempo la fase acuta della crisi di Cuba era stata superata), e a metà mese la rivista, con Ivan Denìsovic, era in edicola: un successo straordinario, tra l’edizione in rivista e successivamente quelle in volume, fu diffuso in un milione di copie. Solgenitsyn era ovviamente soddisfatto, malgrado i tagli subiti: Tvardovskij addirittura raggiante: ma il vero vincitore era Krusciov che, con la pubblicazione di Ivan Denìsovic, pensava d’aver portato a compimento la destalinizzazione e insieme, facendo cadere per sua iniziativa il tabù sul sistema concentrazionario, di chiudere in qualche modo la pagina più oscura dello stalinismo. Ivan Denìsovic è la cronaca scabra di una giornata d’inizio 1951 in un campo di lavoro relativamente tollerabile, una miniera di carbone nel Kazachstan settentrionale, e di una giornata relativamente buona: una sola giornata delle tremilaseicentocinquanta (più tre, ”per via degli anni bisestili”) a cui ammontava la pena, dal ”punto di vista” di un recluso qualunque, uno che ha imparato ad adattarsi per sopravvivere - a cominciare dalla confessione di reati inesistenti -, che malgrado tutto ha elaborato una sua etica e che, nelle condizioni date, ha i tratti del ”giusto” (una sorta di Platon Karataev sovietico); gli fa da contrappunto uno ”più giusto” di lui, Alësa, il battista del campo, e nel colloquio tra i due risuona il dibattito tra Ivan e suo fratello Alësa nei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Solgenitsyn guarda al mondo concentrazionario, colto non nella sua forma più disumana, con l’ottica essenziale del testimone (la figura del protagonista è in parte autobiografica e in parte rispecchia un artigliere conosciuto durante la guerra), con un linguaggio narrativo robusto ed efficace, nutrito di trattenuta emotività non priva di risvolti ironici, e insieme di una sapiente elaborazione della tradizione letteraria. Il risultato è lo studio antropologico della vita d´uno zèk per il quale tutto (anche il cielo stellato) è diverso da come lo percepisce chi non ha conosciuto l’inferno; e se Tolstoj aveva detto che la giornata d’un contadino può essere oggetto d’un romanzo al pari della storia ”grande”, il matematico Solgenitsyn - dice Georges Nivat - viene sedotto ”dal metodo tolstojano di applicare l’unità narrativa (la povest’) all’unità biologica (una giornata di una singola persona)”. Naturalmente, Ivan Denìsovic fece più scalpore per il tema affrontato che per la qualità letteraria, che veniva avvertita solo in funzione dell’infrazione del tabù. La tragica storia delle repressioni staliniane, che tutti conoscevano ma non era lecito nominare, i campi di lavoro, la morte per fame e per freddo, quando non per fucilazione, il degrado estremo della vita che vi si conduce: e uno scrittore di vaglio (ancorché sconosciuto) aveva ”parlato” di questo, e la principale rivista sovietica l’aveva pubblicato, col consenso dei vertici del Partito. Da questo punto di vista, Ivan Denìsovic non è ancora un’opera del ”dissenso” (fenomeno che, secondo la periodizzazione storico-culturale più attendibile, iniziò solo qualche anno più tardi), ma l’apice del ”disgelo” kruscioviano. Ciò spiega, tra l’altro, come György Lukàcs scorgesse in Ivan Denìsovic la ”critica plebea allo stalinismo”, e come Lucio Lombardo Radice vi riconoscesse i tratti ”della grande tradizione nazionale-popolare ed etico-politica della letteratura russa”. ”Solgenitsyn - dice Krill Pomerancev, riprendendo l’immagine di Algarotti - ha aperto una finestra” sull´Unione Sovietica. Una finestra attraverso la quale l’Europa, e con essa tutto il resto del mondo, non solo ha visto ciò che vi avveniva, ma anche ha creduto a quel che vedeva”. Perché la tragedia concentrazionaria era ben nota anche prima, a chi la volesse conoscere, e non solo per trasmissione orale: anche in Italia erano state pubblicate diverse testimonianze dirette (come quella di Elinor Lipper, da La Nuova Italia nel 1952), e Gaetano Salvemini già nel 1935, a Parigi, aveva denunciato i ”campi” sovietici. Il merito di Solgenitsyn stava appunto nell’’aver fatto credere alla gente a quello che vedeva”, e ciò grazie alla qualità letteraria del testo, senza la quale, del resto la sua testimonianza non sarebbe ”passata”. Ma, a distanza di decenni, questo aspetto ha dato luogo a uno strano paradosso: ciò che era unanimemente ritenuto il punto di forza, la qualità dello scrittore, quarant´anni dopo sembra che, per alcuni, sia d’intralcio per dibattere i temi stessi da lui sollevati. Durante questi decenni sono capitate molte cose: il premio Nobel, il lungo esilio, le polemiche anche aspre (non più con l´establishment sovietico, ma con compagni di reclusione e d’emigrazione), l’implosione del sistema sovietico, il rientro in patria di Solgenitsyn. Ma soprattutto la sua vena di narratore è parsa appannarsi, per lasciare spazio al polemista (non sempre equanime) de La quercia e il vitello o de I nostri pluralisti, allo storico (non sempre affidabile) di Duecento anni insieme, e al romanziere-cronista (di ardua digeribilità) de La ruota rossa. Di recente s’è così fatta strada l’idea che ”la discussione sulla qualità letteraria di Solgenitsyn” sarebbe una ”strada indecente” (Pierluigi Battista), perché stravolgerebbe l´unica discussione che va affrontata, sulla ”tragedia del comunismo”. Ma a confondere il piano storico-politico con quello letterario si possono dare strani risultati. Ad esempio, Oleg Platonov (un campione della ”destra radicale” russa, e perciò nostalgico non del ”comunismo”, ma sì dell’impero sovietico) sostiene che mentre i primi racconti e Arcipelago Gulag sono ”un importante contributo alla cultura russa”, i romanzi sono mediocri e ”La ruota rossa risulta un totale insuccesso creativo” (La corona di spine della Russia, Moskva 1997, tomo II, pag. 471). Si tratta forse di una ”questione estetica”? Neanche per sogno: per Platonov il punto non sta neppure nella ”tragedia comunista”, ma nel ”giudeo-bolscevismo” di Lenin (perciò ”apprezza” Stalin): buoni sono gli scritti di Solgenitsyn utilizzabili in quell’ottica, cattivi gli altri. Arcipelago Gulag gli sta bene perché collega le repressioni durante la guerra civile a quelle degli anni Trenta (un’ottica contestata da Roy Medvedev fin dal 1977), mentre Il primo cerchio no, perché è astiosamente anti-staliniano. Povero Ivan Denìsovic! Solgenitsyn è un premio Nobel per la letteratura: e che cos’altro dovrebbe discutere la critica se non i ”valori estetici” di un testo? Fatto salvo il dovere di continuare a indagare sul suo terreno la tragedia dello stalinismo, bisogna riconoscere ancor oggi che, per la sua valenza ”letteraria”, Una giornata di Ivan Denìsovic, accanto a La casa di Matrëna e al Il primo cerchio, è il meglio di Solgenitsyn» (Cesare G. De Michelis, ”la Repubblica” 2/12/2002). «Quello che dovrebbe essere l’autunno o l’inverno sereno di un ”patriarca” [...] è turbato, come, del resto, lo sono state le passate stagioni della sua vita, da polemiche o, peggio, da denigrazioni. [...] Uno scrittore che è qualcosa di più, o se si vuole di diverso, di un puro letterato e che come tale ha svolto un ruolo unico nella storia del suo Paese e, si può dire senza esagerazioni, del mondo occidentale, dove l’autore dell’Arcipelago Gulag ha saputo affermare in tempi oscuri una voce di verità. Nessuna apologia di Solzenicyn, ma una comprensione critica della sua figura e della sua opera, il che è possibile se si percepisce quella grande ”anomalia” che la Russia è stata nello scorso secolo, dopo essere stata in quelli precedenti una parte ”speciale”, cioè dotata di forti peculiarità, del processo storico europeo. Se la Russia novecentesca (nella sua metamorfosi sovietocomunista) fosse stata una realtà a sé, un’anomalia marginale, l’interesse dovutole sarebbe quello che si tributa a qualcosa di esotico e remoto. Ma il paradosso è che la Russia del XX secolo è stata non un fenomeno eccentrico, bensì il centro maggiore della storia europea e mondiale dello scorso secolo e la decifrazione della sua ”anomalia” è essenziale per interpretare adeguatamente l’intera vicenda universale degli ultimi cento anni. Solzenicyn tutto ciò lo sa come pochi altri, anzi lo sente e lo ha sentito quando le menti erano ottenebrate dai miti rivoluzionari e antirivoluzionari: il suo anticomunismo, formatosi dopo la giovanile adesione a un comunismo generosamente immaginario e come ripulsa del comunismo squallidamente reale, non è frutto di un’ideologia capovolta rispetto a quella dominante, ma si sostanzia di una riflessione storica personale, come dimostra il suo ciclo narrativo La ruota rossa, opera mastodontica, e diseguale. [...] Del resto, lo stesso Arcipelago Gulag che cos’è stato se non un’opera di storia orale, sintesi di microstorie, arcipelago di testimonianze e, nel suo insieme, dantesco monumento a un inferno del nostro tempo che non ha conosciuto né purgatorio né tanto meno paradiso? Nella temperie postmoderna della Russia postcomunista, nel suo caos di passato realsovietico, di presente pseudocapitalistico e di un futuro che adombra una sintesi triste delle prime due dimensioni temporali, quando l’incombenza della storia sulla realtà attuale viene esorcizzata con le parole e i silenzi di nuove ideologie politiche e letterarie, la storicità di Solzenicyn, al di là delle sue concrete manifestazioni più o meno accettabili, sembra un anacronismo, per quanto eccezionale ne debba essere riconosciuta la qualità morale e intellettuale anche da parte dei suoi avversari. Ma in un’epoca in cui diversi flussi di cronos, di tempo storico e vissuto s’intrecciano, si accavallano e si elidono, tanto da creare una sorta di ”senza tempo”, così come la globalizzazione crea un virtuale ”metaspazio”, essere ”anacronistici” non è forse un modo tra i più sicuri per vivere il proprio tempo senza lasciarsene soffocare, sentendolo come figlio di una lunga storia giunta a un punto morto, che è insieme un interrogativo e un confine? Aleksandr Solzenicyn [...] è, in questo mondo imprevedibile, un possibile orientamento tra i pochi superstiti. Leggerlo, tra consenso e dissenso, aiuta a vincere il vuoto dell’indifferenza e a cercare una via verso qualcosa che non c’è più o forse non c’è ancora» (Vittorio Strada, ”Corriere della Sera” 11/12/2003). Vedi anche: Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 13/2001;