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 2002  settembre 11 Mercoledì calendario

Erwitt Elliott

• (Elio Romano Erwitt) Parigi (Francia) 26 luglio 1928. Fotografo. Figlio di ebrei russi, «trascorre l’infanzia a Milano, dove il padre, architetto innamorato dell’arte e della cultura italiana, aveva voluto stabilirsi. A causa delle leggi razziali, la famiglia si trasferisce negli Stati Uniti, acquisendo la cittadinanza americana. A quattordici anni Erwitt scatta le sue prime fotografie. Nel 1953, chiamato da Robert Capa, si affilia alla mitica agenzia Magnum, per la quale realizzerà alcune delle più celebri foto del Novecento. “Non mi interessano i paesaggi ma la gente”, dice lui, anche se a volte realizza paesaggi da togliere il fiato (come il mare di Brighton 1966, o un cielo immenso in Argentina 2001). Ma è effettivamente la gente colta negli istanti delle proprie emozioni l’humus più fecondo di Erwitt: personaggi famosi come Nixon, Kruscev o Marilyn Monroe, o gente qualunque incontrata per strada . E tra la “gente", per questo fotografo vanno annoverati anche i cani, di cui esegue alcuni veri e propri ritratti di eccezionale intensità e delicatezza. Il tipo di fotografia che gli interessa - dice ancora Erwitt - è “quella in cui viene colto l’istante” e che “in un lampo... sembra uscire fuori dal nulla” . Uno “scatto" dell’immaginazione trasforma la realtà in un proprio prodotto: la fotografia appare come uno spazio in cui l’oggettività gioca soltanto uno dei ruoli possibili e dove il riferimento al reale riguarda un reale complesso, non solo “naturale", ma anche concettuale e immaginativo. Erwitt tende a restituire ai personaggi e agli eventi quell’unicità, quell’“anima” che la riproducibilità tecnica dell’immagine - teorizzata con apocalittica lucidità di Walter Benjamin - tende a cancellare. Si serve spesso, a questo scopo, di un “eccesso di visibilità” che annulla l’automatizzazione della visione e instaura una polivalenza metaforica dell’immagine: ad esempio focalizzando l’attenzione su un particolare anomalo, o creando veri e propri calembour visivi di potente ironia, in cui accosta alcuni particolari in modo spiazzante, come le gambe umane e le zampe di cavallo in Brasile 1990. Sogno, ironia, senso del destino, sembrano contrassegnare tutta l’opera di Erwitt, determinandone le caratteristiche semantiche e sintattiche. Avere il senso del destino significa immergersi nelle contraddizioni della vita, senza tradirsi con artifici ideologici, avviando una meditazione antropologica che non di rado si tinge di colori epici. Il senso del destino si pone alle radici della cultura occidentale, con la tragedia greca. E infatti significa anche affrontare il volto tragico del reale, a cui Erwitt dà le sembianze di Jackie Kennedy in lacrime, al funerale del marito, o della madre di Robert Capa riversa sulla lapide tombale del figlio, New York 1954» (Silvia Pegoraro, “Il Messaggero” 26/7/2002). «IL “povero negro” che si abbevera, in North Carolina, 1950!, ad un lavandino sgarruppato, con accanto l’elegante erogatore d’acqua, riservato ai bianchi. White, Colored: la tragica cromia dell’apartheid. Il cagnino dalle orecchie di vampiro, infilzato in un pullover, che trotterella accanto alle gambe d’una amazzone new look. Nixon che discute animatamente con un Kruscev stupefatto e gli punta il dito sulla giacca, quel “tocco e ritocco”, che rendeva isterico Totò. Jacqueline Kennedy che avanza neoclassica, disfatta di lagrime e come ipnotizzata, sotto un velo nero, nel cimitero di Arlington. Ci sono degli scatti, nella storia della fotografia, così celebri e trasformati in icone indiscutibili, che quasi ci si dimentica di chi ha premuto il clic fatale. Elliott Erwitt è un signore gentile, che scivola ovattato tra i suoi capolavori, che ti fotografa di schiena, sorridendo come un gatto al sole, e parla sommesso, ironico, per non disturbare quei celebri scatti, quasi avesse paura che possano dileguarsi, ribellandosi. [...] Pochi lo ricordano, ma Elio Romano Erwitt, nato in Francia da genitori russi emigrés, nel 1928, ha vissuto dieci dei primi, formativi, anni in Italia e non hai mai dimenticato una lingua che gli suona gentile. Poi, un po’ le leggi razziali, un po’ il suo carattere irrequieto, a quindici anni e mezzo viveva già da solo a Los Angeles, lo hanno portato in America, ove ha mutato il suo nome in Elliott, “per venire incontro agli americani, perché dire in quella lingua Hi Elio suona quasi come un impossibile scioglilingua”. Il suo carattere (anche di fotografo) è questo: si amalgama con la realtà con cui si mimetizza e vede, vede, vede, quello che altri trascurerebbero. Si fa piccolo come un bassotto, spropositatamente lungo come una baguette, morbido e flou come uno scatto sfuggente. La vita noiosa proprio non gli si confà. “Sì, io sono prevalentemente un turista, che starebbe benissimo a casa sua, però...c”. Turista, ma non per caso: per devozione alla realtà che si trasforma, che è sempre imprevedibile, “val sempre portarsi dietro un apparecchietto... Io stesso, adesso che ho più tempo, ripercorro i miei vecchi archivi e scopro degli snaps di cui prima non mi ero nemmeno accorto”. Anche alcuni scatti diventati famosi, come quello dei due che si baciano nello specchietto retrovisore, sono stati riscoperti solo anni dopo. Ma perché è cambiato lo sguardo del mondo, sociologicamente, o perché lui stesso è cambiato? “No, semplicemente perché sono diventato più vecchio e ho più tempo per frugare tra gli scarti”. [...] dà l’impressione d’essere un fotografo molto più paziente del nervoso “cacciatore” Cartier Bresson, suo grande amico e collega della Magnum (“stiamo cercando qualcuno per ringiovanirla”). Cartier-Bresson che teorizzava il furto dell’immagine: uno scatto rubato e via. Lui dà invece l’impressione di appostarsi, come in una botte in laguna, e di attendere l’emigrazione dell’immagine anatra-giusta. Più un fotografo-regista, insomma, che un fotografo-cacciatore. A differenza di tanti Maestri, poi clamorosamente smentiti (come il suo amico Capa) lui l’ammette, tranquillamente, che ci si aggiusta: “Eh, certo che ci si mette un po’ d’accordo con la realtà, ci mancherebbe, è il bello del mestiere”. Come quando al Prado, sala di Goya, tutti i maschi davanti alla Maya Desnuda, ed una donna sola, un po’ piccata, a sorbirsi la Maya vestita, “che vuole, qualche contrattazione ci vuole pure!”). Oppure tutti i pittori nudi, al cavalletto, e solo la modella vestita, “quello era un mio film, ne ho fatti ben diciotto, in otto anni”. Si rianima, ne parla entusiasta. Documentari? Fiction? “Diciamo finzioni che sembravano documentari. Per esempio un safari in tight, oppure una colazione da milardari, l’antipasto a Parigi, la carne in Africa, il dessert a Tokyo, con una zuppa da 4000 dollari, di pipì d’uno strano serpente, quella che bevono i lottatori di sumo, per rinvigorirsi”. C’è da credergli? “Lei scriva che gliel’ho assicurato io e siamo a posto”. Gonfio di ricordi, ovviamente: il padre di Odessa, che da antiquario diventa monaco buddista (anche in lui c’è qualcosa di zen, queste simmetrie che però si fanno ironiche, questo nitore quasi Bauhaus bonariamente derisorio, questi scorci inconsueti, che ritagliano il mistero, in stile vagamente surrealista: “Sì, certo, mi piacevano molto e io sono assai influenzabile”). Odessa, città di musicisti (è lui ad aver immortalato l’ultimo saluto di Toscanini dal podio, “Nessuno se l’aspettava”), no non sa suonare: “Al massimo la radio”. Un’ironia che ricorda quella del suo amico Saul Steinberg (“Gli ho fatto anche un filmino, mentre cantava”) e che ci accompagna fin dentro un film maledetto come Gli Spostati. “No, noi fotografi eravamo beati, erano loro un po’ nervosi. Marilyn sempre in ritardo, Montgomery Clift finito, Huston che lavorava come un mulo e poi tutta la notte al casinò. Solo Clark Gable faceva la sua vita. Aveva altro cui pensare: si era appena sposato. E devo dire che un po’ lo capisco”» (Marco Vallora, “La Stampa” 2/4/2004).