Corriere della Sera, 7 settembre 1997
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I funerali della principessa
Il rintocco di una sola campana ha accompagnato il corteo senza sfarzo in una Londra avvolta nel silenzio La folla in attesa fin dalla notte Dietro il feretro, il principe Carlo, i figli William e Harry, Filippo di Edimburgo e Charles, conte Spencer, che ha ricordato così la sorella: “Non ebbe bisogno di titoli reali per generare magia”. C’era emozione, ma non si temeva rancore. Invece, fu in chiesa che Elisabetta udì dalla voce del fratello di Diana, conte Spencer, che la principessa, colei che poteva essere regina, “non ebbe bisogno d’alcun titolo reale per generare la sua magia”. La regina, impassibile, non mosse ciglio all’accusa di sovrana superfluità. Ma certo più della canzone di Elton John, irruzione del pop sotto le volte gotiche, più dello star system dei Pavarotti e dei Tom Cruise, chiamato nel tempio dell’Inghilterra dei dignitari, furono quelle parole dure e astiose a segnare il cambio dei tempi. La musica, le preghiere, gl’inni sarebbero continuati. Ma l’eco di quell’insulto risuonò per la Terra, sottolineato dall’applauso spontaneo mai prima udito nella volta di Westminster: che, così, sottoscrisse l’accusa.
Non è vero, come sembra, che i funerali facciano la storia. Non Napoleone, non Bismarck, non Camillo Benso conte di Cavour sono ricordati per le loro esequie. Invece lo sarà Diana, principessa del Galles, perché per darle l’estremo saluto si vide a Londra un mondo nuovo, prodotto dall’era globale, penetrare un’antica monarchia: attori, cantanti, sarti, ma pure i diseredati, i disperati del Terzo Mondo che la Cnn porta nelle case e che Diana scoprì, sull’esempio di Madre Teresa di Calcutta, il cui ritratto ieri la folla issava assieme a quello della principessa. E quando Mohammed Al Fayed, il padre di Dodi che l’establishment rifiuta, entrò in lacrime a Westminster, mostrando l’invito nel timore di non essere accettato, si capì che non è vero, come disse la Thatcher, che “non esiste quella cosa chiamata società”. Esiste, ma non è quella che s’intendeva fino a ieri: esiste, e vuole soppiantare l’Ancien Regime. Naturalmente, ci volle tempo a capire.
Dapprima, quando il feretro di Diana lasciò Kensington Palace, sull’affusto di cannone scortato dalla Welsh Guard, coi cuscini di fiori bianchi ornati d’una sola tenera parola, “Mummy”, sentire gli zoccoli dei cavalli sull’asfalto diede un senso d’antiche certezze. Le grida della folla, “Tu sia benedetta!”, anche. E pure un imprevedibile suono di cornamuse, nel battito lugubre della campana di Westminster. Ma quando la processione giunse a Buckingham Palace, nel vedere la regina uscire al cancello, a piedi, per onorare il defunto che passa come si fa nei villaggi di campagna, il dubbio s’annidò. Accanto a lei c’era Sarah, l’altra nuora reietta: Diana rimetteva anche i debiti degli altri debitori? Ma, quando Elisabetta chinò il capo davanti alla bara, si fece certezza: mai la sovrana s’era inchinata, a memoria d’uomo, a vivi e morti.
Fu però sul Mall (dove il rabbino capo Jonathan Sacks aspettava Diana, perché il sabato gli vieta ogni cerimonia) che l’isolamento reale, alfine, divenne spettacolare. Cinque uomini, cinque uomini soli come in un film di John Ford, aspettavano Diana: al centro il fratello Charles, ai lati i figli William e Harry, agli estremi l’ex marito Carlo e l’ex suocero Filippo. E benché li seguisse una folla di malati, di senzatetto, di dolenti in sedia a rotelle, era la solitudine dei cinque uomini che colpiva. Loro stessi lo sentivano se, all’ombra del portico delle Horse Guards, si scambiarono gesti solidali: lo zio pose una mano sulla spalla di Harry, il nonno carezzò la schiena di William. Certo, sapevano che all’abbazia li aspettava una lunga sofferenza. E chissà se pure la regina madre, vecchia come il secolo, entrando a Westminster con Elisabetta, sentiva tremare le fondamenta della casata. Comunque, ricomposto secondo protocollo l’antico regime, fu l’inno glorioso, God Save the Queen, a dare l’illusione che pure in Terra possa esistere un regno eterno, benché venisse recitato il monito di Giobbe: “Non portiamo nulla in questo mondo, e di certo non possiamo portar fuori alcunche”.
Parve che la tradizione incarnata dalla monarchia potesse avere il sopravvento: le sorelle di Diana, Lady Sarah e Lady Jane, quest’ultima moglie del segretario particolare della regina, alzarono un retorico appello all’amore eterno, che parve scongiurare lo scontro. Seppure il terrificante Requiem di Verdi, Libera me, avesse fatto vacillare gli animi su cui cadrà il dies irae. Ma Verdi, con la trasfigurazione della musica, fu solo un miraggio. Perché poi toccò a Tony Blair, un premier che, porgendo in questi giorni la mano alla corona barcollante, in realtà la supplisce: lesse San Paolo, Blair, ove cita il bambino che si fa adulto, e conosce “fede, speranza, amore, soprattutto amore”. Quale amore? Forse quello evocato quando si sentì, attesissimo ma inconsueto in chiesa, un pianoforte? Era Elton John, che cantava la celebre Candle in the Wind, composta per Norma Jean, Marilyn Monroe, e adattata per Diana, “rosa d’Inghilterra”.
Si trattengano i nostalgici: è ovvio che questo fu il legato più simbolico della principessa morta, la sua eredità Kitsch. Ma fu il segno che il passato era passato: dicono testimoni che la regina ascoltasse imperterrita, mentre i principi William e Harry cedessero al pianto: non basteranno le lacrime a convincere gl’increduli? Perché, non bastassero, il dies irae venne davvero. Salì al pulpito Charles, ottavo conte Spencer, a leggere il tributo a Diana: un tributo alla “ragazza davvero britannica”, erede di “una nobiltà che trascendeva le classi”. E non c’era bisogno di conoscere la rivalità tra l’aristocrazia inglese e casa Hannover, ribattezzata Windsor, per capire la sfida lanciata. Tant’é che Diana “non aveva bisogno di titoli reali”, strappati col divorzio, “per continuare a generare magia”.
Un’offesa. Ma Spencer, oltre a imputare la stampa, citando “i paparazzi”, e a ricordare la vulnerabilità della sorella, evocandone con crudezza i “disturbi alimentari”, non si fermò nell’invettiva. Così, rivolto a Diana, promise: “Noi, la tua famiglia di sangue, faremo di tutto” perché i principi William e Harry “non siano solo sovrastati da doveri e tradizione, ma possano cantare liberamente come tu avevi voluto”. Avanzò insomma diritti sul futuro dell’erede al trono. E si sfogò nel pianto, Spencer, salutando “l’insostituibile Diana, la cui bellezza, esterna e interna, mai s’estinguerà nelle nostre menti”. Fu il momento in cui, di fronte all’audacia della rivolta, rimase sconvolta la platea di Westminster. Poi scoppiò nell’applauso, più per la sensazione, forse, che per assenso. Ma non importa: l’applauso uscì dall’abbazia, volò sulle folle che nei parchi davanti ai grandi schermi, nelle vie di Londra, nelle case dalle tv accese del Regno Unito, d’Europa, del mondo, erano finora rimaste in stupito silenzio.
La monarchia era sfidata, nel nome di Diana, e qualche membro della casa reale, nello sconcerto, s’unì all’applauso. Così, non bastò la voce ferma dell’arcivescovo di Canterbury, non bastò l’Amen alla fine del Padre Nostro, non bastarono gli alleluia. C’era ancora il rito del minuto di silenzio, un rito da augurare ai Paesi senza patriottismo, perché è allora che una nazione si sente unita: alle 12.05 (e 26 secondi) ogni uomo e donna s’alzò in piedi, e ripensò a Diana, ai sogni che aveva incarnato, allo scontro aperto fra nuovo mondo e antica monarchia. Per un eterno minuto d’immobilità, si sentì alitare il destino. E, da quel minuto, alita ancora per le vie di Londra: è questa l’eredità di Diana, principessa del Galles.