14 gennaio 1909
Tags : 1908 – Messina e Reggio, il nostro tsunami
La visione di Messina distrutta
A bordo del Sardegna
vado verso i luoghi della catastrofe con una angoscia ancora viva, con una
curiosità dolorosa e insoddisfatta, perché di questo immenso schiacciamento di
città non conosco che le brevi notizie trasmesse dal telegrafo senza fili ai
piroscafi naviganti nell’Atlantico durante il mio viaggio da New York
all’Havre.
Ogni giorno gli apparecchi Marconi della Lorraine afferravano atroci e rapidi messaggi sul cataclisma
immane che percorrevano gli spazi come gridi lanciati sul mondo da un popolo in
dolore. Dicevano: Messina è distrutta, Reggio è un immenso sepolcro; le vittime
sono cinquantamila, sono centomila, sono duecentomila. Queste erano le sole
voci che ci giungessero nell’isolamento tempestoso dell’Oceano; ed io arrivo
qui non sapendo altro, senza aver potuto leggere i giornali, passando da un
piroscafo ad un express, da un express ad un diretto per finire su questa nave,
che mi porta da Napoli a Messina con un carico di pane per i vivi e di
disinfettanti per i morti. (...)
Non riesco ad avvicinare la spaventosa realtà d’oggi al
ricordo che ho di questi luoghi. Penso che la Messina che io vidi non la vedrò
mai più. Sorgerà una nuova città, sarà forse più bella; ma sarà un’altra.
Quella che ho impressa nella memoria non è più che un sogno, non è che una
visione scomparsa, non ha più solidità di un delirio; è finita per sempre.
Questo è stato il primo pensiero angoscioso che mi ha
assalito: una pietà infinita per la città stessa, morta così, senza quella
grandiosa agonia che precede sempre la fine delle città; morta in trentadue
secondi, schiacciata come se un piede titanico si fosse posato su di lei nell’istante
di un passo dal faro alla città. Dove Messina si prolungava in ridenti
sobborghi, non esistono più che ruderi, dodici chilometri di ruderi; non un
segno di vita. Ogni tanto qualche casa che giganteggia sulle rovine pare
intatta e attira lo sguardo, che cerca un riposo fra tanto orrore; ma è una
facciata in piedi avanti a macerie informi, una maschera dalle occhiaie vuote;
delle chiese non rimane che l’abside bianca simile ad una nicchia gigantesca.
– Guardate! Guardate! Dei morti; – passa questo grido a
bordo; corriamo dalla parte indicata.
– Qui sotto, qui sotto!
– Guardiamo: due cadaveri che, chi
sa per quale simpatia da morti, galleggiano vicini, ondeggiano presso alla
nave, gonfi, orrendi, cullati dalla agitazione della nostra scia. Arrivano dunque
fino qui i morti?
Un capitano messinese ci dice che a decine i cadaveri sono
stati gettati dalla marea sulle sabbie del faro perché, dopo che la terra ha
compiuto la strage, il mare ha voluto la sua parte. La mostruosa ondata che
seguì il terremoto spazzò intieri villaggi.
Dalla riva non giunge un rumore; Messina non tumultua più,
non grida più, non piange più, si è composta in un silenzio spaventoso. Contro
alle rovine si ergono formidabili e foschi profili di navi da guerra; e navi da
guerra inglesi e americane sono ormeggiate al largo, torpediniere nere filano a
tutto vapore per missioni ignote. Si ha l’impressione di un immenso spettacolo
di guerra, di una città rasa al suolo dai bombardamenti, annientata, di un
passaggio marittimo preso e custodito da squadre poderose.
La presenza di questi colossali ordigni di distruzione e di
strage è suggestiva. Mentre passiamo a prua della Regina Elena, come in tempo di guerra la corazzata interroga dal
suo ponte di comando. Una voce al megafono grida al Sardegna: «Da dove venite? Cosa avete a bordo? Va bene!» poi
entriamo lentamente nel porto.
Qualche facciata di palazzo è rimasta in piedi lungo la
marina con delle finestre sfondate e gli stipiti anneriti dagli incendi; ma
dietro alla facciata è uno sfacelo. Sono delle apparenze, come quinte da teatro
tenute in piedi per nascondere gli orrori della distruzione. A chi sbarca pare
che il terremoto abbia avuto una specie di pudore del suo delitto.
Mi rendo conto dell’errore di un grande piroscafo che,
ignaro della catastrofe, andò l’altro ieri per sbarcare a Messina un carico di
rimpatrianti e soltanto quando fu entrato nel porto issando le bandiere si
accorse che Messina non c’era più. Si sollevò improvvisamente dal ponte della
nave un urlo alto di orrore e la nave atterrita si gettò macchina indietro a
tutta forza, uscì dal porto e fuggì.
Sbarcando mi sono sentito alitare per la prima volta sul
viso dalla città disfatta l’orrendo odore dei cadaveri, un lezzo penetrante,
indimenticabile, caratteristico, accorante, che vi richiama di colpo alla
memoria tutte e più atroci scene di morte alle quali avete assistito e che
evoca improvvisamente una visione di volti lividi ossessionante.
Ancora più di settantacinquemila cadaveri sono sotto alle
macerie di Messina e forse in mezzo a questo immane carnaio umano vi è ancora
qualche vivente; certo anzi. Anche ultimamente fu trovato fra le macerie e
salvato un uomo rimasto quindici giorni sepolto. All’epoca del terremoto in
Liguria furono salvate delle persone dopo diciotto, dopo venti giorni. In
questo caos di travi, di mattoni, di mobilio e di putredine, nel tragico
silenzio vi sono dei cuori che battono gli ultimi palpiti. Pensiero
insopportabile!
Le banchine di approdo sono ora a fiore di acqua ed erano
invece tre metri alte sul mare; le ondate più grosse invadono la strada che,
tagliata in lungo da ampie fenditure, ha rovesciato verso il mare carri e gru,
carichi di merce. Fra le fenditure minacciose delle facciate ancora in piedi
passano squadre di soldati, file di marinai inglesi, italiani, americani e mi è
sembrato di ritrovarmi per un istante nella occupazione internazionale delle
rovine di Tientsin. Sui cumuli di macerie che hanno cancellato persino la
traccia di alcune strade, il passaggio delle truppe ha tracciato strani
viottoli primitivi, che scendono, salgono, serpeggiano intorno ai ruderi,
sentieri bizzarri e sinistri minacciati da muri che penzolano, da travi
stranamente sospese e nei quali si può dire che la morte è sotto ai piedi e
sulla testa.
Veramente la morte è per tutto e diventa familiare; se ne
parla con serenità, vi si vive vicino senza ribrezzo. Vi sentite indicare: «Qui
sotto sono sepolte quindici persone; qui venticinque; là era una caserma di
guardie di finanza e vi sono duecento cadaveri». La morte entra in tutti i
discorsi come il suo fetore entra in ogni rifugio.
Sotto ad un arco rimasto del palazzo municipale, appena
sbarcato, ho visto quattro soldati, due dei quali terminavano di chiudere una
grossa cassa posta sopra un carretto e gli altri due mangiavano del pane dando
una mano. Erano sporchi, avevano lavorato fra le macerie.
– Che c’è lì dentro? – ho chiesto.
– Un principe con la sua moglie. Qui era il suo palazzo. Li
abbiamo tirati fuori adesso.
– Come si chiamava? – ho domandato.
– Il principe di Santa Margherita. La cassa partirà per
Napoli.
Avendo compiuto il lavoro, i due soldati si sono attaccati
al carretto che gli altri hanno spinto sbocconcellando il loro pane e si sono
allontanati sotto la pioggia per la via sconnessa.
Poco lontano un gruppo di marinai inglesi lavorava a scavare
sopra un ammonticchiamento di rovine.
– Chi cercate?
– Cerchiamo la moglie e la figlia del console inglese, che
vivevano qui.
Siete sicuri di trovarli?
– Sì, già si sente il puzzo.
Tutto questo è detto con indifferenza, non per dispregio, ma
per familiarità colla morte. Anche i superstiti cominciano a parlare con
stupore più che con strazio dei loro morti, ed è con aria attonita che dicono
cose le quali vi fendono il cuore. Hanno provato emozioni troppo violente e subitanee
per avere ancora della energia nel dolore. Il numero enorme di pazzi indica
quale spaventosa prova abbia subìto l’anima di questi infelici e spiega gli
orrori che hanno seguito la catastrofe, perché in questi momenti di crisi
supreme un popolo dà, in poche ore, tutto il bene e tutto il male che ha in sé:
crudeltà, cupidigia, egoismo, devozione, eroismo, escono all’aperto.
Nell’istante della catastrofe, così spaventevole che non si
può immaginare perché supera i confini della fantasia umana, Messina deve avere
presentato l’aspetto di una burrasca di case. Le vaste città osservate
dall’alto richiamano sempre alla mente il vecchio paragone di un mare di
case...; ebbene qui, quel mare ha avuto delle ondate giganti, ha per mezzo
minuto agitato dei marosi. I palazzi debbono aver subito oscillazioni più ampie
di quelle che tormentano le navi sulle reste di un oceano in tempesta. Non è
possibile figurarsi questo titanico sconvolgimento di muraglie, di tetti, di
pavimenti, di colonne, di archi, di lastricati se non si è compiuto un
indimenticabile, ossessionante pellegrinaggio fra le macerie. Le cifre, i dati,
le notizie non bastano a darne un’idea; bisogna aver visto. Dire che tutte le
case sono crollate è poco. Vi sono segni evidenti che certi muri, che dei
balconi, delle intiere fronti di palazzi sono stati lanciati via, spinti in
direzioni strane da impulsi formidabili e inconcepibili. Molti caseggiati hanno
addirittura sparpagliato intorno e lontano i loro brani, hanno mescolato le
loro rovine a quelle di edifici discosti, hanno frammisto macerie,
suppellettili e cadaveri in un ammucchiamento fantastico, orrendo, grandioso.
Si è creato al posto della città un paesaggio atroce fatto di cumuli calcinosi,
di ruderi. Spesso le vestigia di una via sono date soltanto da qualche angolo
di edificio rimasto eretto, da qualche fetta di facciata pericolante colle
imposte divelte, le cortine delle finestre sventolanti, con vasi fioriti ancora
incastrati nei davanzali. Alcune case da lontano sembrano intatte; ma avvicinandole
ci si accorge che non hanno che le quattro fronti screpolate, gonfie,
minacciose, chiudenti la completa rovina dell’interno crollato; fronti che pare
stiano a guardia della loro strage perché stanno per cadere e ad ogni istante i
massi crollano dalle loro creste come per tenere lontana la pietà degli uomini.
Altri pezzi di edifici si sono appoggiati uno all’altro sostenendosi. Alcuni
ruderi sottili rimangono miracolosamente eretti sulle rovine quasi per indicare
l’altezza dei palazzi scomparsi.
Ed è infinitamente pietoso leggere sui tanti avanzi le
tracce di una vita tranquilla e intima. Di molte case è crollata una parte
soltanto e gli appartamenti si mostrano aperti come scene di teatro, narrando
la loro storia; tavole ancora apparecchiate in piccole sale da pranzo, piene di
ordine e di pace, camere da dormire con letti disfatti, abbigliamenti femminili
gettati sulle sedie, eleganze e miserie, vite di ricchi e vite di poveri, forse
troncate insieme, sono ricordate così.
Si vedono ambienti sventrati che pare aspettino ancora chi
li ha creati, abitati ed amati, con alle pareti ritratti e ricordi cari a genti
che furono. Vento e pioggia penetrano in angoli intimi, arredati con affetto,
ed alle intemperie sbiadiscono fotografie di persone che sorridono. (...)
Molti cadaveri si scorgono qua e là, distesi ancora sui
letti ove hanno dormito l’ultimo sonno, oppure caduti nella fuga. In un andito
aperto due corpi di donna abbracciati imputridiscono. Altri cadaveri giacciono
in punti inaccessibili e pericolosi. Ad ogni momento bisogna torcere lo sguardo
dallo spettacolo orrendo di nudità livide e gonfie. Da un avanzo di pavimento,
che non si può raggiungere, un corpo di giovinetta si sporge ignudo. Mi hanno
detto il suo nome: era la più bella fanciulla di Messina. Una cosa atroce! Per
la mia professione, che così spesso mi trascina sui luoghi visitati dalla
sventura, ho visto migliaia di cadaveri; ma non ho mai forse sentita una
commozione più profonda mista ad una pietà e ad una specie d’indignazione e di
rivolta come alla vista di quel cadavere di fanciulla che la ferocia del caso
ha voluto esposto in un modo singolarmente orrendo. Non bastava la morte; vi si
è aggiunto lo scherno, la profanazione, la irriverenza più empia.
Il più grande numero dei morti è sulle vie; la maggiore
strage è stata di fuggiaschi. I superstiti raccontano d’aver visto le case
abbattersi sulle strade gremite di popolo seminudo, che fuggiva in terrore.
– Urlava la gente correndo – mi ha detto una donna
raccontandomi la fuga – ma il rumore delle case che crollavano era più grande
di mille tuoni e di mille cannoni.
Quando si scaverà si troveranno migliaia di cadaveri a
masse, tutti caduti per lo stesso verso come biade falciate. (...)
Non so perché, la mia mente si accanisce, in un’ossessione
piena di angoscia ad evocare queste scene spaventose, che dovremmo dimenticare
per concentrare meglio le nostre volontà e le nostre forze al risorgimento
delle regioni colpite dal cataclisma. E vorrei pensare ad altro; ma il ricordo
di quel che ho visto è troppo vivo, presente, straziante e ad una ad una le
orrende cose mi si ripresentano al pensiero con la paurosa esattezza di visioni
persecutrici.
Luigi Barzini
Leggi il 28 dicembre 1908
Leggi il 29 dicembre 1908
[Cds 14/1/1909]