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I corsivi di giovedì
Colori
La Stampa
Che differenza c’è tra
un emigrato italiano morto a Marcinelle
e un immigrato senegalese morto
in Puglia?
Il colore della pelle,
ti pare poco?
Jena
Pomodori
Pomodori
Corriere della Sera
Ci sono alternative all’agricoltura ad alto sfruttamento di manodopera. L’Olanda, incredibilmente primo esportatore mondiale di pomodori, può raccontare qualcosa anche ai produttori del Mezzogiorno italiano: che la strada vincente non è lo sfruttamento dei braccianti ma l’innovazione tecnologica. Il dato di fatto straordinario è che l’Olanda, Paese grande meno della somma di Lombardia ed Emilia-Romagna e con un clima non particolarmente favorevole, è il secondo esportatore mondiale di cibo per valore, dopo gli Stati Uniti (236 volte più grandi). Circa il 50% del territorio è utilizzato per agricoltura e orticoltura, in genere in serre climatizzate. Una ricerca pubblicata da Frank Viviano su National Geographic ha raccontato com’è possibile che i piccoli Paesi Bassi siano gli esportatori mondiali numero uno (sempre per valore) non solo di pomodori ma anche di patate e cipolle e numero due per i vegetali in genere. E come sia possibile che l’Olanda origini più del 30% delle sementi per vegetali commerciate globalmente. La chiave di questo successo — sostiene la ricerca — è la Wageningen University & Research, probabilmente il centro scientifico più avanzato del mondo nel settore. Attorno a esso è cresciuta una Food Valley, un distretto fatto di fattorie sperimentali e di start-up. Tutto è iniziato una ventina d’anni fa, quando l’Olanda ha deciso di sviluppare un’agricoltura di precisione sotto lo slogan «Il doppio del cibo con metà delle risorse». L’introduzione di scienza e tecnologia ha portato risultati straordinari. In termini di resa, l’Olanda produce ad esempio 144.352 tonnellate di pomodori per miglio quadrato (260 ettari), quasi sei volte in più della Spagna e degli Stati Uniti, una decina di volte in più che in Italia. E per resa è prima al mondo anche per peperoncini e cetrioli, seconda per pere e quinta per carote, patate e cipolle. Nella produzione di pomodori, grazie alle innovazioni tecnologiche (ad esempio coltivazioni idroponiche) in Olanda si usa 25 volte meno acqua rispetto alla media mondiale, 14 volte meno che negli Stati Uniti. Tra il 2003 e il 2014, la produzione di vegetali è aumentata del 28% mentre l’uso di energia è sceso del 6%, quello di pesticidi del 9%, quello di fertilizzanti del 29%. È la scienza, non il caporalato, a fare la differenza.
Danilo Taino
Vanità
il Giornale
Mentre a Ferrara continua l’esposizione della collezione Cavallini-Sgarbi, ricordo un pamphlet contro di me che un ferrarese livoroso mi dedicò. Storico senza cattedra, Alessandro Roveri, si è molto occupato di fascismo, dedicando libri a me e a Berlusconi. Oggi, che si è ritirato, vedo che dalla sua bibliografia ha cancellato il perfido libello contro di me, ma non quello in favore di Antonio di Pietro del 2005. Pensando, dopo più di vent’anni al destino degli uomini, non mi compiaccio della sua attuale irrilevanza, della mia resistenza e del riconoscimento della mia città, ma provo compassione per chi mi ha ingiuriato. Non gli posso perdonare le cattiverie contro mia madre e il disprezzo che oggi la mostra al Castello smentisce per «l’ambiente piccoloborghese e provinciale» nel quale sarei cresciuto: «Una ristretta cerchia di possidenti di campagna che si sentivano assediati dalla pressione psicologica del circostante movimento contadino rosso». Povero mio padre farmacista, che si è raccontato in quattro bellissimi libri (Lungo l’argine del tempo) di umanissima verità! Quanta inutile, disumana, retorica ideologica in quelle parole! Può uno storico parlare di un uomo non conoscendone il luogo di nascita? Io sono nato a Ferrara, non a Ro come scrive Roveri. Non mi sono «iscritto alla Federazione giovanile del Partito monarchico». Non sono stato «retribuito» ,per scrivere il libro sopra le opere della Città di Rovigo ma ero in aspettativa senza assegni. È questo il rigore di uno storico? Omnia vanitas.
Vittorio Sgarbi
il Giornale
Mentre a Ferrara continua l’esposizione della collezione Cavallini-Sgarbi, ricordo un pamphlet contro di me che un ferrarese livoroso mi dedicò. Storico senza cattedra, Alessandro Roveri, si è molto occupato di fascismo, dedicando libri a me e a Berlusconi. Oggi, che si è ritirato, vedo che dalla sua bibliografia ha cancellato il perfido libello contro di me, ma non quello in favore di Antonio di Pietro del 2005. Pensando, dopo più di vent’anni al destino degli uomini, non mi compiaccio della sua attuale irrilevanza, della mia resistenza e del riconoscimento della mia città, ma provo compassione per chi mi ha ingiuriato. Non gli posso perdonare le cattiverie contro mia madre e il disprezzo che oggi la mostra al Castello smentisce per «l’ambiente piccoloborghese e provinciale» nel quale sarei cresciuto: «Una ristretta cerchia di possidenti di campagna che si sentivano assediati dalla pressione psicologica del circostante movimento contadino rosso». Povero mio padre farmacista, che si è raccontato in quattro bellissimi libri (Lungo l’argine del tempo) di umanissima verità! Quanta inutile, disumana, retorica ideologica in quelle parole! Può uno storico parlare di un uomo non conoscendone il luogo di nascita? Io sono nato a Ferrara, non a Ro come scrive Roveri. Non mi sono «iscritto alla Federazione giovanile del Partito monarchico». Non sono stato «retribuito» ,per scrivere il libro sopra le opere della Città di Rovigo ma ero in aspettativa senza assegni. È questo il rigore di uno storico? Omnia vanitas.
Vittorio Sgarbi
Maschilismo
il Fatto Quotidiano
Dovendo aver da ridere con un Serra, preferiremmo sempre si trattasse del finanziere Davide. Stavolta ci è andata male perché dovremo qui contestare alcune affermazioni di Michele, che tanti sorrisi di ammirazione ci ha strappato nella sua carriera. La premessa: ieri su Repubblica Serra ha scritto una pagina contro “il sovranismo di genere”, ultima frontiera del rigurgito reazionario che scuote il mondo: “Il nuovo potere si vendica delle donne”. Lo spunto è un’immagine degli attivisti argentini di “Pro Vida” che manifestano contro l’aborto (dei quali noi pensiamo tutto il male possibile, sottoscrivendo le sacrosante parole che Serra dedica all’interruzione di gravidanza in relazione all’autodeterminazione delle donne). “Potrebbero benissimo essere, al primo sguardo”, aggiunge, “manifestanti polacchi o ungheresi o austriaci in supporto ai loro governi nazionalisti, o ultras di una delle tante curve di destra che, con poche eccezioni, governano negli stadi europei. Si tratta di un’antropologia piuttosto uniforme: etnicamente monocolore e maschile quasi in purezza, con sparutissime femmine a fare da supporter, mai, comunque, da leader”. In “Europa abbiamo imparato a chiamarli sovranisti”: e qui abbiamo una prima obiezione, costituzionale. La nostra Carta è così “sovranista” che mette la sovranità al primo articolo, affermando che appartiene al popolo. Popolo e sovranità che sono stati trasformati nel lessico comune – nel lessico della sinistra, purtroppo – in termini spregiativi, “populismo” e “sovranismo”.
C’è poi la questione etnica, il “maschio bianco”. Una riflessione che ha senso negli Stati Uniti, assai meno in stati come Polonia, Austria, Ungheria o Italia: semplicemente perché si tratta di Nazioni in cui l’immigrazione è più recente e numericamente meno significativa rispetto agli Usa.
E, ultima ma non ultima, la politica: non sono solo la crisi economica e della democrazia ad alimentare le nuove destre. Ma anche, dice Serra, un neo maschilismo che si vede nel “trionfo di quella quintessenza del maschio alfa che sono i nuovi leader populisti, i Trump, i Putin, gli Erdogan, giù giù fino a Orbán e Salvini; della pallida presenza femminile (anche a sinistra…) negli ultimi scorci – così decisivi – della politica italiana”. Ora, a non voler essere pignoli citando le signore Marine Le Pen in Francia e Alice Weidel di Afd in Germania, ci tocca dire che una parentesi non basta a raccontare che il problema della rappresentanza femminile è assolutamente trasversale.
Non si spiegherebbe altrimenti la rivolta delle donne di quel che resta del Pd (Towanda!) all’indomani delle elezioni. O lo scivolone dell’Espresso, di cui il direttore s’è diffusamente scusato, nel test dell’estate. La domanda era: “Idee politiche a parte, fareste sesso con…” seguivano le foto di quattro politici maschi (Macron, Fico, Giorgetti e Casaleggio) e quattro politiche donne (Le Pen, Appendino, Santanchè, Bongiorno). Per gli uomini le motivazioni erano “perché sa come si fa, perché è poliedrico, perché è indecifrabile”. Per le donne: “per zittirla, per svegliarla” e perfino “per sculacciarla” (davvero). Il che suggerisce un’idea di passività e sottomissione (o, al contrario, di dominio) che poco s’accorda col femminismo che a sinistra va per la maggiore.
Il fatto è che la discriminazione di genere non ha colore ed è diffusissima a vari livelli della società: si vedano i dati su gender gap salariale, rappresentanza politica, disoccupazione; o si veda, per stare ai media, la mappatura delle prime pagine dei giornali che va facendo Michela Murgia. A malinCuore ricorderemo ciò che sostiene ne Il caso Joseph Conrad: “Esser donna è terribilmente difficile perché consiste soprattutto nell’aver a che fare con gli uomini”.
Silvia Truzzi