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In questi anni la spending review ha funzionato? Facciamo i conti
Il Sole 24 Ore
Tagli per circa 32 miliardi, euro più euro meno, nel periodo 2014-2018. Ma quasi tutti utilizzati per coprire misure espansive come il bonus degli 80 euro e quelle sul lavoro o come concorso indiretto alla riduzione del deficit. È il “conto” della revisione della spesa realizzata nell’ultima legislatura, che sostanzialmente coincide con il piano presentato all’inizio del 2014 dall’allora commissario alla spending review Carlo Cottarelli, poi rimasto al palo: 34 miliardi di risparmi “effettivi” da realizzare, tra l’altro, in soli tre anni (dal 2014 al 2016). Proprio il dossier Cottarelli è stato uno dei punti di riferimento dei programmi elettorali di M5S e Centrodestra (con la Lega più prudente sui tagli), ma nel ”contratto” gialloverde chiamato a fare da bussola per il nuovo Governo si fa solo un generico riferimento a tagli agli sprechi, oltre all’intervento su vitalizi e costi istituzionali. In ogni caso quello della revisione della spesa sarà uno snodo chiave per l’eventuale decreto estivo nell’agenda del Governo e soprattutto per la definizione del quadro programmatico del Def da cui dovrà scaturire la prossima legge di bilancio.
Quella abbozzata quattro anni fa da Cottarelli è una strategia chiaramente diversa rispetto al “programma” portato avanti dal commissario Yoram Gutgeld (nominato dal governo Renzi) in collaborazione con il ministero dell’Economia. Con cui tra il 2014 e il 2017 sono stati eliminati o ridotti capitoli di spesa per 29,9 miliardi. Con l’asticella salita da 3,6 miliardi nel primo anno, 18 nel 2015 e 25 nel 2016. A questa dote si è aggiunto un “effetto spending” di circa 2,5 miliardi (4,5 miliardi “lordi”) innescato dall’ultima manovra approvata dal Parlamento con un intervento consistente sui ministeri (un miliardo di tagli) e la riprogrammazione di vari “trasferimenti”.
La maggior parte delle risorse è stata però utilizzata a copertura di molti degli interventi via via adottati dagli esecutivi Renzi e Gentiloni. Per questo motivo in termini assoluti la spesa, pur rallentando notevolmente la sua corsa soprattutto in rapporto al Pil, non ha fatto registrare una vera frenata. Anche dopo la stretta operata con l’ultima legge di Bilancio, le spese nette sono risultate in aumento di circa due miliardi nel 2018, 7,6 nel 2019 e 4,8 miliardi nel 2020.
Al di là degli effetti prodotti, il processo di revisione della spesa non si è mai fermato. Tra il 2014 e il 2017 è stata operata una potatura complessivamente pari al 18% della spesa corrente, al netto dei costi del personale (considerando i quali si scende a poco più del 9,1%). A contribuire di più all’operazione “tagli selettivi ed efficientamento” sono state le amministrazioni centrali, ministeri in primis (24% della spesa complessiva senza però il “peso” del capitolo dipendenti pubblici), e in misura minore gli enti territoriali (17%). Una fetta non trascurabile di risparmi è stata realizzata anche con il rafforzamento della centralizzazione degli acquisti Pa: +13% fino al 2017, con risultati crescenti dal 2014 grazie al rafforzamento del cosiddetto modello Consip.
Come detto, le risorse recuperate solo in minima parte sono state impiegate per ridurre in termini assoluti la spesa. L’ultima relazione presentata nell’estate del 2017 dal commissario Gutgeld sottolinea che «la revisione della spesa ha creato circa due terzi delle risorse messe a disposizione per il conseguimento di tre importanti obiettivi: il risanamento dei conti pubblici; la riduzione della pressione fiscale; il finanziamento dei servizi pubblici essenziali». Su quest’ultimo versante è stato indirizzato il grosso delle risorse recuperate con la spending: 12,7 miliardi per prestazioni previdenziali e assistenziali. Fino al 2017 altri 3,7 miliardi sono stati destinati alla sanità, 3,4 miliardi sono stati inquadrati come spesa per migranti, tre miliardi hanno preso la via della scuola e un miliardo quella della sicurezza.
La “spending” era tornata a essere un tema quasi centrale nell’ultima campagna elettorale. I Cinquestelle puntavano a recuperare 30 miliardi annui a regime ai quali aggiungere altri 40 miliardi dal riordino delle tax expenditures. Il Centrodestra aveva fissato come obiettivo 30-40 miliardi dalla razionalizzazione degli sconti fiscali e quasi altrettanti di spending review, ma, alla fine, il “contratto” è rimasto privo di numeri.
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