Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
La Corte di Giustizia europea ha stabilito che se uno vuole far cancellare cose che lo riguardano da Internet deve rivolgersi al motore di ricerca, cioè nel 90 per cento dei casi a Google. Google, saputa la cosa, non ha gradito, ma ieri ha fatto sapere di aver messo a disposizione dei navigatori europei un modulo attraverso il quale si potrà chiedere la rimozione di dati sensibili. Un portavoce di Google ha rilasciato la seguente dichiarazione: «Questo implica per Google arbitraggi difficili tra il diritto all’oblio dei singoli e il diritto all’informazione del pubblico. Stiamo creando un comitato consultivo di esperti che analizzi attentamente questi temi. Inoltre, nell’implementare questa decisione coopereremo con i garanti della privacy ed altre autorità».
• In sostanza?Chi sia interessato alla cancellazione di qualche dato deve riempire il modulo e identificarsi, indicare quale link vuole sia rimosso in relazione a quale ricerca e perché; per identificarsi dovranno essere forniti le copie digitali di un documento di identificazione (la carta d’identità o anche la patente) e occorrerà la firma elettronica della richiesta. I moduli saranno analizzati individualmente da qualcuno di Google (e non analizzati da un software). Google non specifica quanto tempo ci vorrà per cancellare i link né fa sapere quali saranno i criteri applicati.
• Problema risolto?
A naso direi di no, tutt’altro che risolto. Il groviglio mi pare intricatissimo.
• Com’è cominciata la cosa?
Un avvocato Gonzalez, spagnolo, sedici anni fa rimase impigliato in una procedura immobiliare. Ne uscì pulitissimo, ma la cosa era in ogni caso visibile in Rete, e Gonzalez voleva che fosse rimossa. Google ha resistito a lungo, poi la Corte di Giustizia europea ha dato ragione allo spagnolo: i cittadini hanno diritto di chiedere la cancellazione di link che rimandino a «contenuti non più rilevanti». Così decidendo, i giudici del Lussemburgo hanno demolito tre princìpi su cui Google ha imperniato fino ad oggi la propria azione: il motore ha sempre sostenuto che i contenuti della rete sono indicizzati da un software in modo automatico, non gli si può dunque imputare alcun trattamento. In altri termini: Google sarebbe neutro rispetto a quello che fa trovare. La Corte europea nega questa definizione e sostiene che Google, in quanto fornitore di un servizio in qualche modo pubblico, deve cancellare a richiesta, badando solo che chi richiede la cancellazione non sia in qualche modo un soggetto, su cui i naviganti hanno un qualche diritto di sapere. Secondo principio: non è il titolare del sito a dovere eventualmente procedere alla cancellazione, come volevano quelli di Google, ma lo stesso motore di ricerca dato che, senza il motore di ricerca, sarebbe assai arduo arrivare all’informazione sensibile. È Google che rende facilmente reperibile qualunque notizia, dunque è Google che deve provvedere. Terzo principio: Google è basata negli Stati Uniti, dunque il diritto a cui deve attenersi è quello americano. La Corte ha replicato che è sufficiente l’esistenza di una Google Spain per far ricadere la materia sotto la giurisdizione Ue.
• Supponiamo che il ricorrente sia un europeo non-Ue. La decisione del Lussemburgo è valida lo stesso?
No, e infatti uno dei risultati della sentenza potrebbe essere il trasferimento in massa dei siti per esempio a San Marino. In questo caso niente cancellazione, si ricade sotto un altro diritto.
• Quali altri garbugli ha intravisto?
Intanto i tempi. Le richieste in arrivo sono una valanga (a oggi già più di mille) e Google ha promesso di far esaminare le varie domande non a un software ma a un gruppo di esseri umani. C’è poi una questione generale, che riassumiamo attraverso le parole dell’avvocato Guido Scorza, esperto in diritti della Rete: «Una società privata farà da arbitro nel decidere quando prevale la privacy e quando il diritto all’informazione, su cose che riguardano tutti noi. Un aspetto su cui solo i Garanti della privacy o i giudici dovrebbero decidere». Inoltre se la pagina rimossa da Google contiene dati di terzi, anche questi saranno cancellati. Che dire poi dei potenti che chiederanno la rimozione di un articolo prima che un magistrato si pronunci sulla sua natura diffamante? Ancora una volta, il motore si sostituirebbe al tribunale e senza possibilità di tornare indietro, almeno allo stato attuale. Il diritto all’oblio infatti ormai esiste, ma quello alla reindicizzazione del contenuto ancora no. Altra questione: Google decide senza contradditorio, sulla base di quello che sostiene la parte ipoteticamente lesa. È stato anche citato il caso di un cittadino finito in Rete per aver scritto frasi contro le donne o contro gli ebrei. Costui chiede la cancellazione, la ottiene, poi si candida in qualche elezione e viene eletto, perde cioè lo stato di cittadino qualunque: nessuno dei suoi elettori saprà mai quello che ha combinato in passato. L’avvocato Fulvio Sarzana, altro esperto della materia, ha infine immaginato che cercando notizie cancellate salti fuori una scritta che avverta: i dati cercati sono stati rimossi in obbedienza al diritto all’oblio. Google lo fa già per i siti che violano il copyright. Ma basterà quella scritta per pensare, del soggetto che s’è fatto rimuovere, le cose peggiori.
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