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I corsivi dai giornali di oggi
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la Repubblica
Dopo avere letto sul sito dell’Espresso, alle ore 17,19 di ieri, i dodici commenti alla notizia “Il figlio di Foa è stato assunto nello staff di Salvini”, io chiedo pubblicamente, e ingenuamente, e inutilmente, ai direttori dei giornali di questo gruppo editoriale, di abolire i commenti online; oppure, in alternativa, di sottoporli al severo vaglio della redazione, qualunque sia il costo aggiuntivo che questo vaglio comporti (sono disposto a indire una colletta tra i lettori, per finanziare la bonifica). Ovviamente quei commenti a quella notizia sono solo l’occasionale pretesto – tra mille altri – per ribadire che quando si legge qualcosa si è in cerca di almeno una stilla di utilità, di senso, insomma di “informazione”. Io ho 64 anni, non ho il tempo e la voglia di dare spazio e ascolto a chi non ha NULLA da insegnarmi. Se il senso dei commenti online è aggiungere qualcosa, si sappia che i commenti online, nella media, tolgono qualcosa. Non arricchiscono un sito, lo impoveriscono. Abbassano la qualità, abusano dello spazio e del tempo altrui. Sono claque organizzate, e per giunta organizzate male. O singoli molestatori. Siano uno su mille o uno su dieci, quelli che hanno qualcosa di sensato da dire (non importa se "pro" o "contro"), li leggo volentieri, e li ringrazio pure. Gli altri sono puro veleno, invasori di campo, abusivi della parola, violenti da allontanare da un locale pubblico. Se qualcuno vomita in casa mia, mi sento in obbligo di pulire.
Dopo avere letto sul sito dell’Espresso, alle ore 17,19 di ieri, i dodici commenti alla notizia “Il figlio di Foa è stato assunto nello staff di Salvini”, io chiedo pubblicamente, e ingenuamente, e inutilmente, ai direttori dei giornali di questo gruppo editoriale, di abolire i commenti online; oppure, in alternativa, di sottoporli al severo vaglio della redazione, qualunque sia il costo aggiuntivo che questo vaglio comporti (sono disposto a indire una colletta tra i lettori, per finanziare la bonifica). Ovviamente quei commenti a quella notizia sono solo l’occasionale pretesto – tra mille altri – per ribadire che quando si legge qualcosa si è in cerca di almeno una stilla di utilità, di senso, insomma di “informazione”. Io ho 64 anni, non ho il tempo e la voglia di dare spazio e ascolto a chi non ha NULLA da insegnarmi. Se il senso dei commenti online è aggiungere qualcosa, si sappia che i commenti online, nella media, tolgono qualcosa. Non arricchiscono un sito, lo impoveriscono. Abbassano la qualità, abusano dello spazio e del tempo altrui. Sono claque organizzate, e per giunta organizzate male. O singoli molestatori. Siano uno su mille o uno su dieci, quelli che hanno qualcosa di sensato da dire (non importa se "pro" o "contro"), li leggo volentieri, e li ringrazio pure. Gli altri sono puro veleno, invasori di campo, abusivi della parola, violenti da allontanare da un locale pubblico. Se qualcuno vomita in casa mia, mi sento in obbligo di pulire.
Michele Serra
Insulti
La Stampa
Sui social ci si insulta sanguinosamente perché davanti al computer non ci sono filtri: è un rapporto senza l’altro, che non prevede la buona educazione o perlomeno l’ipocrisia. Lo dicevo nella rubrica di ieri. Un’amica legge e mi scrive allegandomi un pezzo di otto anni fa, in cui sosteneva che l’irraccontabile non esisteva già più, era tempo in cui si raccontava tutto, specie di sé. Rispondo che nel Decennio dell’Io, libro degli Anni Settanta, Tom Wolfe spiegava come eravamo diventati il centro del nostro universo, e descriveva una donna in una seduta pubblica che, invitata a eliminare dalla vita qualcosa di profondo, gridò: «Emorroidiii» (ecco che cosa stava diventando il centro del mondo). Lei mi risponde tirando fuori Canetti (Anni Sessanta) e di come l’individuo, quando diventa massa, esalta il suo senso di persecuzione. Tocca a me: Simone Weil (Anni Quaranta) irrideva chi in campagna elettorale vede lobby di qui e di là, l’oscuro nemico, e tutti ci cascano. Lei rilancia con Hannah Arendt: la politica ormai consiste nel pregiudizio verso la politica. Bè, dico, in un romanzo di fine Ottocento, Vamba (il papà di Giamburrasca) ritrae il passeggero di un treno che ruggisce contro un onorevole, siccome viaggia gratis e in Parlamento si gratta la pancia, e noi paghiamo. Insomma, verso sera, in questo viaggio nella velleitaria lotta al pregiudizio, eravamo ormai arrivati agli antichi romani. Lei s’è giocata la carta Ovidio: è pericoloso, data la facilità con cui si sbaglia, vivere puntando solamente sull’onestà. Io mi sono dichiarato sconfitto con Cicerone: mala tempora currunt.
Mattia Feltri
Vaffa
il Giornale
Difficile, in un Parlamento umiliato a votificio forzato e senza dialettica, riconoscere, al di là del merito degli interventi, deputati intelligenti da deputati fessi. Ho quindi fatto un test nel momento in cui il Parlamento si scaldava sull’appassionante tema delle parolacce: dai banchi della Lega era partita un’esortazione a una parlamentare del Pd che si era espressa polemicamente sui rimborsi elettorali. Scontro politico infiammato con la rara passione di una volta, ma equivocata da uno stucchevole formalismo ipocrita. Apre i giochi Renata Polverini, che ha sentito quello che nessun altro sembrava aver sentito. E basta perché uno spaesato Francesco Paolo Sisto, spalleggiato da una languida e comica Boldrini, nostalgica di una autorevolezza mai avuta, si sporgano in patetiche filippiche contro il turpiloquio, in difesa della dignità dell’Aula. Cosa aveva scandalizzato le due anime belle? Il consunto e ormai affettuoso «vaffa...» di cui è alimentato il lessico della letteratura del Novecento, a partire da Pasolini. Dovevate sentirli i due angeli custodi del Parlamento! Ma non si poteva ascoltare il presidente Fico dare loro ragione, nell’indifferenza di tutti, rassicurandoli che avrebbe sanzionato ogni esuberanza verbale. Ho dovuto manifestargli la mia preoccupazione per un cortocircuito genetico: l’inno del suo partito, il grido di guerra del suo leader, il loro slogan politico, non era forse il «vaffa...»? Capisco Sisto e la Boldrini; ma tu, Fico, non ti stai femminizzando?
Vittorio Sgarbi
Love Island
Love Island
Corriere della Sera
Mentre in Italia è finito «Temptation Island», il docu-reality che meglio di ogni altro programma rappresenta il «pensiero» di Maria De Filippi (la migliore interprete 2.0 del mito della borgata pasoliniana), da mesi in Inghilterra si discute molto di «Love Island».
In onda su ITV2 da fine maggio, ogni sera alle 9 il programma racconta gli ultimi gossip all’interno della villa, con il commento ironico della voce fuori campo di Iain Stirling.Il format è ambientato in Spagna in un contesto balneare che agli inglesi suona come location esotica. Ma la cosa più interessante è che il programma è diventato un fenomeno di costume per almeno tre aspetti. Ascolti: «Love Island» ha portato a moltiplicare in modo esponenziale la media di ITV2. E, da questo punto di vista, è molto simile al successo di «Temptation Island».Social: in rete, «Love Island» è più discusso di «Games of Thrones». La app che avvisa in tempo reale su ciò che accade nella villa è la più scaricata nel Regno Unito. Vita reale: fra i gli incliti e i colti, non si parla d’altro, e non solo tra i più giovani. Alcuni modi di dire usati nel programma sono diventati virali. I protagonisti non sono celebrità ma lo diventano appena escono dal reality: tutti belli (modello Barbie e Ken), alcuni anche intelligenti e sensibili, altri meno (una concorrente è diventata celebre per non sapere cos’è la Brexit).
A differenza di «Temptation Island», «Love Island» è pieno di leggerezza e ironia: le coppie si incontrano per la prima volta nel reality e non hanno pregressi «pesanti». L’approccio è comunque piuttosto maschilista (gli uomini scelgono), ma le ragazze non sono solo prede, perché dirigono anch’esse il gioco in un vortice di gossip, voltafaccia e ritorni di fiamma. Insomma, si può raggiungere il successo anche senza essere esteticamente rassegnati.
Mentre in Italia è finito «Temptation Island», il docu-reality che meglio di ogni altro programma rappresenta il «pensiero» di Maria De Filippi (la migliore interprete 2.0 del mito della borgata pasoliniana), da mesi in Inghilterra si discute molto di «Love Island».
In onda su ITV2 da fine maggio, ogni sera alle 9 il programma racconta gli ultimi gossip all’interno della villa, con il commento ironico della voce fuori campo di Iain Stirling.Il format è ambientato in Spagna in un contesto balneare che agli inglesi suona come location esotica. Ma la cosa più interessante è che il programma è diventato un fenomeno di costume per almeno tre aspetti. Ascolti: «Love Island» ha portato a moltiplicare in modo esponenziale la media di ITV2. E, da questo punto di vista, è molto simile al successo di «Temptation Island».Social: in rete, «Love Island» è più discusso di «Games of Thrones». La app che avvisa in tempo reale su ciò che accade nella villa è la più scaricata nel Regno Unito. Vita reale: fra i gli incliti e i colti, non si parla d’altro, e non solo tra i più giovani. Alcuni modi di dire usati nel programma sono diventati virali. I protagonisti non sono celebrità ma lo diventano appena escono dal reality: tutti belli (modello Barbie e Ken), alcuni anche intelligenti e sensibili, altri meno (una concorrente è diventata celebre per non sapere cos’è la Brexit).
A differenza di «Temptation Island», «Love Island» è pieno di leggerezza e ironia: le coppie si incontrano per la prima volta nel reality e non hanno pregressi «pesanti». L’approccio è comunque piuttosto maschilista (gli uomini scelgono), ma le ragazze non sono solo prede, perché dirigono anch’esse il gioco in un vortice di gossip, voltafaccia e ritorni di fiamma. Insomma, si può raggiungere il successo anche senza essere esteticamente rassegnati.