Il fatto del giorno
di Giorgio Dell'Arti
Come mai nessuno vuole comprare l’Italia, ma tutti vogliono comprare un’azienda italiana come Moncler?
• Moncler, quello dei piumini?
Già. Ieri è stato il suo primo giorno di quotazione in Borsa. Si partiva da un prezzo di 10,2 euro. In avvio «non si è riusciti a fare un prezzo», come si dice in gergo, cioè la richiesta era talmente forte che non si sapeva a chi vendere. Il titolo è stato sospeso e poi rimesso sul mercato a 14,65, con una capitalizzazione strabiliante di 3,5 miliardi. Intendiamoci era già tutto abbastanza prevedibile dato che l’Ipo...
• Calma, calma. Ipo? Capitalizzazione?
“Capitalizzazione”, cioè si prende il valore di una sola azione e lo si moltiplica per il numero di azioni esistenti. Questo ci dice quanto capitalizza l’azienda. La capitalizzazione coincide col valore? Non necessariamente. E tuttavia... Pensi che nel 2003, quando Ruffini rilevò l’azienda dalla Fin.Part, Moncler era stata valutata 30 milioni. Quindi, da trenta milioni a 3 miliardi e mezzo in dieci anni
• E come ha fatto?
È una lunga storia, che non possiamo qui raccontare per intero. Ho girato questa domanda a Franca Sozzani, la direttrice di Vogue, che ha dato questa spiegazione, in due parole: «Ruffini ha investito nei concepts, ha investito negli stilisti, non ha esagerato nel taglio dei prezzi...».
• Concept... Ipo...
Anche un capo d’abbigliamento deve raccontare una storia, cioè deve avere una personalità. E questo è il “concept”. Remo Ruffini, 52 anni, comasco, il mago di questo successo, viene da una grande esperienza fatta col padre negli Stati Uniti (il padre vendeva camicie stampate), travasata poi nel marchio di camiceria New England. Forte di questo passato, quando s’è trovato alle prese con Moncler, ha applicato con ferrea determinazione la regola del concept, o “concezione”: qualcosa deve essere questo, e non altro. In certe interviste ha spiegato che il suo piumino deve andar bene al ragazzo con lo skateboard e alla signora che va alla Scala. In certe altre ha detto che vorrebbe far coincidere la parola “Moncler” e la parola “piumino”, così come si dice “gillette” per “lametta da barba” o “bic” per “penna biro”. Questo per quanto riguarda il “concept”, evidentemente indovinato al millimetro. Quanto all’“Ipo” è una sigla che significa “Initial Public Offering”
, cioè “Pubblica Offerta Iniziale”. Quando uno vuole quotare la sua azienda in Borsa, si stabilisce prima - con le banche - un valore ipotetico e si lascia che a quel valore una parte delle azioni vada a investitori professionali. Nel nostro caso l’Ipo venne fissata a un prezzo oscillante tra 8,7 e 10,2. E che accadde? Che subito da tutto il mondo arrivarono offerte, sicché al terzo giorno la domanda era pari a 12 volte e alla fine era pari a 27 volte l’offerta. Da dove venivano tutte queste richieste? Da investitori sparsi in tutto il mondo, anche perché il 75% di quello che fabbrica Moncler lo vende all’estero. L’andamento del primo giorno di quotazioni conferma quindi i segnali dell’Ipo: Moncler è richiestissima.
• Torniamo alla domanda iniziale. Come mai tutto il mondo vuole Moncler e nessuno vuole l’Italia?
Il mondo non vuole solo Moncler, vuole il lusso e la moda italiani, soprattutto. Ferragamo, Cucinelli, Prada si sono aperte al mercato e hanno avuto un successo simile. Del resto, come sa, le uniche aziende italiane che gli stranieri comprano a tutta velocità, quando sono in vendita, sono quelle della moda e del lusso. Si tratta quindi di capire se ciò per cui il mondo ci apprezza è davvero sfruttato nel miglior modo possibile. Certamente sì per quanto riguarda moda e lusso e certi marchi planetari come la Ferrari. Probabilmente sì, ma con una scarsa difesa politica dei nostri marchi e delle nostre specificità, per quanto riguarda la cucina: la Coldiretti ha esagerato nei blocchi al Brennero in difesa del made in Italy, ma la questione che ha posto è fondata. Non c’è solo un problema di spaghetti cinesi caricati su camion cechi in direzione di Firenze o di mozzarelle tedesche in viaggio per la Sicilia o di latte polacco alla volta della Lombardia o di cagliate per formaggi belghe destinate a Verona o di prosciutti provenienti dalla Germania e acquistati da grossisti modenesi (sto citando fatti veri), ma anche una questione di vera e propria concorrenza internazionale: gli inglesi vogliono mettere un segnale di pericolo sui prodotti della dieta mediterranea e i nostri rappresentanti sono chiamati a dar battaglia a Bruxelles. Infine c’è la questione del turismo e della cultura. Qui c’è di mezzo la politica. Il turismo è spezzettato in mille competenze locali e non c’è una politica-guida come ai tempi felici di Achille Corona, in cui eravamo i primi al mondo (adesso, con tutto quello che abbiamo da offrire, siamo a mala pena quinti). Quanto alla cultura, basterà citare questo dato per rendersi conto di come buttiamo via un nostro potenziale immenso: il Louvre, da solo, fattura il 25% in più di tutti i musei italiani messi insieme.
(leggi)