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Ronaldo, Lautaro e gli altri: il Bar Sport del lunedì
Lautaro
Corriere della Sera
Se si cerca un uomo per l’estate, lo si può trovare dalle parti di Lautaro Martinez. Era un po’ di tempo che non si vedeva un attaccante così fisico e così innamorato di sé, un narcisista innocente senza bisogno del mondo, capace solo di dare. I grandi giocatori si distinguono da quello che sanno aggiungere a una squadra. Giocare bene è un fatto comune, tocca poi all’entusiasmo popolare decifrarlo, darle una maschera, un’epopea. Ma sono pochi quelli che cambiano le squadre. Lautaro lo ha fatto da subito. Dovrà passare tempo, dovremo tutti capire, ma i sintomi di Lautaro sono i migliori, sono quelli che cambiano le gerarchie. Pensate a un’Inter che riesca a mettere insieme sia lui che Icardi. Oppure pensate a un’Inter che non ci riesca, che faccia i conti con un centrocampista in più e un attaccante in meno. Che senso ha? Cerchi giocatori intorno al mondo, ne trovi uno all’altezza poi dici che deve rientrare a centrocampo. Il senso dell’equilibrio nel calcio ha le colpe stesse della geometria. Tu la studi per tutta la vita poi scopri che qualcuno ne ha inventata un’altra. Questo è il calcio di Spalletti, che pure è tecnico finissimo, ma ha sempre il nuovo alle spalle, insegue quello che ha già avuto, non quel che resta da inventare. Cambio argomento, parlo di Pirlo e della sua decisione di scegliere Sky al posto della Nazionale. Quando l’Italia fu eliminata dalla Svezia fui il primo a proporre un’Italia come squadra e come progetto affidata ai giocatori. Pirlo nel frattempo ha prima accettato e poi rifiutato il ruolo di vice Mancini, il secondo ruolo tecnico federale più importante in Italia. È bastato un dubbio con Sky. Tutti abbiamo il diritto di gestire la nostra vita, ma senza favole, quelle esistono finché si gioca. Dopo sei solo un uomo che preferisce Sky, che pensa al solido. Vale anche per Maldini, unico dirigente di un club ad essere ambasciatore di una grande emittente televisiva. Può un tesserato federale avere a pagamento il diritto di parlare di qualunque altro tesserato? C’è un piccolo conflitto di interessi?
Se si cerca un uomo per l’estate, lo si può trovare dalle parti di Lautaro Martinez. Era un po’ di tempo che non si vedeva un attaccante così fisico e così innamorato di sé, un narcisista innocente senza bisogno del mondo, capace solo di dare. I grandi giocatori si distinguono da quello che sanno aggiungere a una squadra. Giocare bene è un fatto comune, tocca poi all’entusiasmo popolare decifrarlo, darle una maschera, un’epopea. Ma sono pochi quelli che cambiano le squadre. Lautaro lo ha fatto da subito. Dovrà passare tempo, dovremo tutti capire, ma i sintomi di Lautaro sono i migliori, sono quelli che cambiano le gerarchie. Pensate a un’Inter che riesca a mettere insieme sia lui che Icardi. Oppure pensate a un’Inter che non ci riesca, che faccia i conti con un centrocampista in più e un attaccante in meno. Che senso ha? Cerchi giocatori intorno al mondo, ne trovi uno all’altezza poi dici che deve rientrare a centrocampo. Il senso dell’equilibrio nel calcio ha le colpe stesse della geometria. Tu la studi per tutta la vita poi scopri che qualcuno ne ha inventata un’altra. Questo è il calcio di Spalletti, che pure è tecnico finissimo, ma ha sempre il nuovo alle spalle, insegue quello che ha già avuto, non quel che resta da inventare. Cambio argomento, parlo di Pirlo e della sua decisione di scegliere Sky al posto della Nazionale. Quando l’Italia fu eliminata dalla Svezia fui il primo a proporre un’Italia come squadra e come progetto affidata ai giocatori. Pirlo nel frattempo ha prima accettato e poi rifiutato il ruolo di vice Mancini, il secondo ruolo tecnico federale più importante in Italia. È bastato un dubbio con Sky. Tutti abbiamo il diritto di gestire la nostra vita, ma senza favole, quelle esistono finché si gioca. Dopo sei solo un uomo che preferisce Sky, che pensa al solido. Vale anche per Maldini, unico dirigente di un club ad essere ambasciatore di una grande emittente televisiva. Può un tesserato federale avere a pagamento il diritto di parlare di qualunque altro tesserato? C’è un piccolo conflitto di interessi?
Mario Sconcerti
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Cristiano
La Stampa
Alle cinque meno venti, quando il piede fatato di CR7 accarezza il prato dello Stadio comunale di Villar Perosa davanti a 5 mila spettatori e 335 milioni di follower, realizziamo di vivere l’evento più glocal della storia del calcio. Quella arbitrata dal sig. Manganiello della sezione di Pinerolo non è stata una partita di calcio, ma una febbre. Una carovana smaniosa e devota, sciarpe bianconere sui cruscotti, incolonnata al bivio esistenziale per la Val Chisone già otto ore prima del fischio d’inizio. Il parcheggio pullman come un’autobiografia della nazione: Roseto degli Abruzzi, Bassano del Grappa, Bordighera, Lido di Camaiore, Potenza Picena. Partiti a mezzanotte, all’una e mezza, alle tre. Barbara che in vacanza a Cannes molla il marito in spiaggia e ora esibisce commossa il biglietto da 20 euro. John Ekann che firma autografi per dieci minuti e arringa i tifosi: «Una festa, il giocatore più forte del mondo in una squadra tra le più forti del mondo. Forza Juve». Il mondo, appunto. Dalla Romania, dal Lussemburgo, da Malta, dalla Gran Bretagna. Non si trovano i biglietti del signor Karsten, sette ore di macchina da Norimberga con i due figli. Prima CR7 poi «a little vacation in Casalborgone».
Navetta gratuita del Comune tra parcheggi, mostra fotografica sull’Avvocato e cimitero dove è aperta la cappella di famiglia. In paese doppia zona di filtraggio, strade chiuse, barriere anti-panico, controlli di zaini e borse, otto tipi di pass. Seicento persone tra poliziotti, carabinieri, volontari, Protezione civile, vigilantes, tiratori scelti, steward di un’agenzia interinale milanese, bodyguard. Mancano solo i capi di Stato perché sembri un G7. Alla fine il più facinoroso risulterà un anziano che alle 12,25 protesta davanti a un varco blindato: «Sono 70 anni che mangio gli agnolotti a mezzogiorno e mezzo, fatemi passare». Una signora sventola una gigantografia del dio: «Cierresette dove sei? Sono Francesconi Roberta da Massa». Gli ambulanti hanno dormito in strada per prendere i posti migliori. Magliette anche in portoghese «Eu estou aqui». Il commerciante calcola: «Ogni dieci magliette di Ronaldo, una di tutti gli altri. Questa è la prima di Dybala». A comprarla Felice, carrozziere calabrese. La fa indossare al figlio perplesso e strizza l’occhio: «Dybala è più giovane, gli dura di più». Imbandierati bar e ristoranti. Nella vetrina della panetteria, rosette avvolte in una sciarpa bianconera. Apertura straordinaria del supermercato Zancanaro. Panino con salsiccia e birra a 5 euro. Il triplo per farsi rasare sulla nuca il logo CR7. «È il giorno più importante dell’anno», dice il sindaco Marco Ventre. Bilancio del Comune 3 milioni di euro l’anno, un decimo dello stipendio di CR7. Una parte dei biglietti venduta in paese, dal tabaccaio e dal benzinaio. Nel gazebo per le prenotazioni online 50 persone in coda alle 8, due ore prima dell’apertura.
Il primo a entrare nello stadio è Fabio da Bagnolo Piemonte. Non era ancora nato quando CR7 vinceva il primo Pallone d’oro. Alle due, mentre sui monti volteggia l’elicottero della famiglia Agnelli, i cinquemila selvaggi e sentimentali sono tutti dentro. Tradizione e post moderno si confondono, Andrea Agnelli lo spiega ai calciatori: «La dimensione della Juve è in questo campetto di periferia, qui siamo nati e ci piace tornare». Al Villar Perosa Stadium l’altoparlante spara «Self control» di Raf quando lo speaker interrompe l’emozione: «I genitori di Gioele possono ritrovarlo al bar». Primo coro «Cristiano portaci la Champions». L’ultimo sarà «Chi non salta è interista». Tribune provvisorie, niente posti numerati né tessere del tifoso, tutti in piedi e se la palla finisce in curva te la porti a casa. «Atmosfera magica, d’altri tempi» si esalta l’inviato di Espn. E adesso che Ronaldo spunta dallo spogliatoio (solo cinque docce, panchette in legno scheggiato e detersivi sotto il lavandino), negli occhi dei bambini brilla la stessa connivenza con la felicità del 5 luglio 1984, quando Maradona sbucò dalle viscere del San Paolo. «Lo stupore di una visione a pochi passi dalla Storia», scrive Marco Ciriello in «Maradona è amico mio» (66thand2nd). Diego Armando palleggiò, mandò baci e parlò al microfono. Cristiano incede tra Perin e Cuadrado, saluta appena sguainando il pollice e solo alla fine si concede per selfie e autografi, ma senza una piega nell’espressione, ieratica come per una finale. Ora la Storia è a pochi passi e Ronaldo è amico nostro, di tutti. Non a caso la sua maglia è la più venduta anche nei Quartieri spagnoli di Napoli. Maradona era uno scugnizzo e aveva dietro di sé un popolo. Ronaldo è una multinazionale, a seguirlo una moltitudine. Al Comunale di Villar Perosa e sugli smartphone di tutto il mondo.
Alle cinque meno venti, quando il piede fatato di CR7 accarezza il prato dello Stadio comunale di Villar Perosa davanti a 5 mila spettatori e 335 milioni di follower, realizziamo di vivere l’evento più glocal della storia del calcio. Quella arbitrata dal sig. Manganiello della sezione di Pinerolo non è stata una partita di calcio, ma una febbre. Una carovana smaniosa e devota, sciarpe bianconere sui cruscotti, incolonnata al bivio esistenziale per la Val Chisone già otto ore prima del fischio d’inizio. Il parcheggio pullman come un’autobiografia della nazione: Roseto degli Abruzzi, Bassano del Grappa, Bordighera, Lido di Camaiore, Potenza Picena. Partiti a mezzanotte, all’una e mezza, alle tre. Barbara che in vacanza a Cannes molla il marito in spiaggia e ora esibisce commossa il biglietto da 20 euro. John Ekann che firma autografi per dieci minuti e arringa i tifosi: «Una festa, il giocatore più forte del mondo in una squadra tra le più forti del mondo. Forza Juve». Il mondo, appunto. Dalla Romania, dal Lussemburgo, da Malta, dalla Gran Bretagna. Non si trovano i biglietti del signor Karsten, sette ore di macchina da Norimberga con i due figli. Prima CR7 poi «a little vacation in Casalborgone».
Navetta gratuita del Comune tra parcheggi, mostra fotografica sull’Avvocato e cimitero dove è aperta la cappella di famiglia. In paese doppia zona di filtraggio, strade chiuse, barriere anti-panico, controlli di zaini e borse, otto tipi di pass. Seicento persone tra poliziotti, carabinieri, volontari, Protezione civile, vigilantes, tiratori scelti, steward di un’agenzia interinale milanese, bodyguard. Mancano solo i capi di Stato perché sembri un G7. Alla fine il più facinoroso risulterà un anziano che alle 12,25 protesta davanti a un varco blindato: «Sono 70 anni che mangio gli agnolotti a mezzogiorno e mezzo, fatemi passare». Una signora sventola una gigantografia del dio: «Cierresette dove sei? Sono Francesconi Roberta da Massa». Gli ambulanti hanno dormito in strada per prendere i posti migliori. Magliette anche in portoghese «Eu estou aqui». Il commerciante calcola: «Ogni dieci magliette di Ronaldo, una di tutti gli altri. Questa è la prima di Dybala». A comprarla Felice, carrozziere calabrese. La fa indossare al figlio perplesso e strizza l’occhio: «Dybala è più giovane, gli dura di più». Imbandierati bar e ristoranti. Nella vetrina della panetteria, rosette avvolte in una sciarpa bianconera. Apertura straordinaria del supermercato Zancanaro. Panino con salsiccia e birra a 5 euro. Il triplo per farsi rasare sulla nuca il logo CR7. «È il giorno più importante dell’anno», dice il sindaco Marco Ventre. Bilancio del Comune 3 milioni di euro l’anno, un decimo dello stipendio di CR7. Una parte dei biglietti venduta in paese, dal tabaccaio e dal benzinaio. Nel gazebo per le prenotazioni online 50 persone in coda alle 8, due ore prima dell’apertura.
Il primo a entrare nello stadio è Fabio da Bagnolo Piemonte. Non era ancora nato quando CR7 vinceva il primo Pallone d’oro. Alle due, mentre sui monti volteggia l’elicottero della famiglia Agnelli, i cinquemila selvaggi e sentimentali sono tutti dentro. Tradizione e post moderno si confondono, Andrea Agnelli lo spiega ai calciatori: «La dimensione della Juve è in questo campetto di periferia, qui siamo nati e ci piace tornare». Al Villar Perosa Stadium l’altoparlante spara «Self control» di Raf quando lo speaker interrompe l’emozione: «I genitori di Gioele possono ritrovarlo al bar». Primo coro «Cristiano portaci la Champions». L’ultimo sarà «Chi non salta è interista». Tribune provvisorie, niente posti numerati né tessere del tifoso, tutti in piedi e se la palla finisce in curva te la porti a casa. «Atmosfera magica, d’altri tempi» si esalta l’inviato di Espn. E adesso che Ronaldo spunta dallo spogliatoio (solo cinque docce, panchette in legno scheggiato e detersivi sotto il lavandino), negli occhi dei bambini brilla la stessa connivenza con la felicità del 5 luglio 1984, quando Maradona sbucò dalle viscere del San Paolo. «Lo stupore di una visione a pochi passi dalla Storia», scrive Marco Ciriello in «Maradona è amico mio» (66thand2nd). Diego Armando palleggiò, mandò baci e parlò al microfono. Cristiano incede tra Perin e Cuadrado, saluta appena sguainando il pollice e solo alla fine si concede per selfie e autografi, ma senza una piega nell’espressione, ieratica come per una finale. Ora la Storia è a pochi passi e Ronaldo è amico nostro, di tutti. Non a caso la sua maglia è la più venduta anche nei Quartieri spagnoli di Napoli. Maradona era uno scugnizzo e aveva dietro di sé un popolo. Ronaldo è una multinazionale, a seguirlo una moltitudine. Al Comunale di Villar Perosa e sugli smartphone di tutto il mondo.
Giuseppe Salvaggiulo
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Giudici
la Repubblica
La sensazione è che il numero di partecipanti al prossimo campionato di Serie B non lo deciderà la Federcalcio. Ma un tribunale. In fondo è prassi in questa buia estate del calcio italiano. È un giudice che ha definito l’attuale Serie A, ma anche la griglia dei ripescaggi e persino se le donne debbano essere inquadrate nei Dilettanti o in seno alla Figc. Oggi alle 19 la Serie B darà il via alla cerimonia dei calendari con solo 19 squadre a comporre il campionato, nel silenzio assoluto della Federcalcio. Sul tavolo del commissario Figc Fabbricini si sono accatastati pareri legali contrari : le direttive federali consentono la riforma del format una stagione per quella seguente. Ma ieri sera, dietro i telefoni muti, le riflessioni erano orientate verso scelte opposte: ad autorizzare con un comunicato intorno all’ora di pranzo il blocco dei ripescaggi e la costituzione di un torneo a organico ridotto, da 22 a 19 squadre. Decisione che, se confermata oggi, avrà una sola conseguenza: armare i ricorsi delle 6 squadre che chiedono il ripescaggio in Serie B. Il tempo stringe, visto che il via è previsto tra 11 giorni, il 24 agosto. Ma cosa succederebbe se al culmine del percorso giuridico il Tar determinasse il reintegro delle ricorrenti? Una B a 25 squadre a torneo iniziato? A complicare la partita, altre toghe: quelle del Collegio di garanzia del Coni, che pochi giorni fa hanno "congelato" la griglia dei ripescaggi. Rimandando tutto al 7 settembre, ossia quando sarà troppo tardi: a nessuno nella Federcalcio però è venuto in mente che fosse necessario fermare i campionati per aspettare il giudizio. Persino la Serie A non è che possa stare tranquillissima: il Collegio di garanzia infatti ha chiesto alla Corte Sportiva di Appello di rideterminare la pena del Frosinone "in relazione alla gravità dei fatti" per la partita col Palermo dell’ultima giornata di B: i ciociari se l’erano cavata con multa e due gare a porte chiuse. Un altro giudice ha deciso che il Parma scontasse la penalizzazione per il tentato illecito di Calaiò - cancellata poi in appello - nel prossimo campionato e non in quello passato. Un principio che ha salvato la A ma che, se applicato in passato, avrebbe prodotto il paradosso per cui la Juventus di Calciopoli avrebbe giocato in Serie A pur essendo stata retrocessa all’ultimo posto in classifica. Delle delibere della Figc commissariata, si ricorderà il flop delle seconde squadre e l’inquadramento del calcio femminile nella Figc. Una sentenza l’ha cancellato. Alla fine si farà, ma parlandone: una pratica quasi dimenticata.
La sensazione è che il numero di partecipanti al prossimo campionato di Serie B non lo deciderà la Federcalcio. Ma un tribunale. In fondo è prassi in questa buia estate del calcio italiano. È un giudice che ha definito l’attuale Serie A, ma anche la griglia dei ripescaggi e persino se le donne debbano essere inquadrate nei Dilettanti o in seno alla Figc. Oggi alle 19 la Serie B darà il via alla cerimonia dei calendari con solo 19 squadre a comporre il campionato, nel silenzio assoluto della Federcalcio. Sul tavolo del commissario Figc Fabbricini si sono accatastati pareri legali contrari : le direttive federali consentono la riforma del format una stagione per quella seguente. Ma ieri sera, dietro i telefoni muti, le riflessioni erano orientate verso scelte opposte: ad autorizzare con un comunicato intorno all’ora di pranzo il blocco dei ripescaggi e la costituzione di un torneo a organico ridotto, da 22 a 19 squadre. Decisione che, se confermata oggi, avrà una sola conseguenza: armare i ricorsi delle 6 squadre che chiedono il ripescaggio in Serie B. Il tempo stringe, visto che il via è previsto tra 11 giorni, il 24 agosto. Ma cosa succederebbe se al culmine del percorso giuridico il Tar determinasse il reintegro delle ricorrenti? Una B a 25 squadre a torneo iniziato? A complicare la partita, altre toghe: quelle del Collegio di garanzia del Coni, che pochi giorni fa hanno "congelato" la griglia dei ripescaggi. Rimandando tutto al 7 settembre, ossia quando sarà troppo tardi: a nessuno nella Federcalcio però è venuto in mente che fosse necessario fermare i campionati per aspettare il giudizio. Persino la Serie A non è che possa stare tranquillissima: il Collegio di garanzia infatti ha chiesto alla Corte Sportiva di Appello di rideterminare la pena del Frosinone "in relazione alla gravità dei fatti" per la partita col Palermo dell’ultima giornata di B: i ciociari se l’erano cavata con multa e due gare a porte chiuse. Un altro giudice ha deciso che il Parma scontasse la penalizzazione per il tentato illecito di Calaiò - cancellata poi in appello - nel prossimo campionato e non in quello passato. Un principio che ha salvato la A ma che, se applicato in passato, avrebbe prodotto il paradosso per cui la Juventus di Calciopoli avrebbe giocato in Serie A pur essendo stata retrocessa all’ultimo posto in classifica. Delle delibere della Figc commissariata, si ricorderà il flop delle seconde squadre e l’inquadramento del calcio femminile nella Figc. Una sentenza l’ha cancellato. Alla fine si farà, ma parlandone: una pratica quasi dimenticata.
Matteo Pinci
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Medaglie
il Giornale
Sfogliamo l’album e teniamocelo stretto. Diciamolo a quelli che non capiscono l’indifferenza al bianco o nero. L’estate dello sport ci ha regalato fantastici sorrisi e bellissime medaglie. Guarda guarda: in bianco e nero. Veramente il colore andrebbe distinto in oro, argento e bronzo. Non altro. Poi mettiamoci nomi: alcuni spiccatamente italiani, altri non proprio tradizionali. Una volta si definivano esotici. Rendiamo grazie a scherma, nuoto, ciclismo e atletica che ci hanno fatto sorridere e soffrire e ricondotto alla realtà dello sport. Non c’è colore o diversità: basta vedere ragazzi in gamba, che si battono, vincono o perdono, ci mettono il cuore. Il cuore non ha colore, è il simbolo di un credo.
In Italia eravamo abituati ad un monocolore, con sporadiche incursioni di atleti venuti da altre realtà o nati da genitori di altro Paese. Però campioni che hanno lasciato il segno. Ne citiamo tre, non a caso: Carlton Myers, fra l’altro portabandiera olimpico; Fiona May fantastica nel salto in lungo ed ora con figlia-erede niente male; Sumbu Kalambay il peso medio, divenuto campione del mondo, e che nella tecnica aveva poco da invidiare a Nino Benvenuti.
Oggi, invece, siamo tifosi di un’Italia diversa, più universale, definitela pure globale. Ci restiamo male se Yemen Crippa non riesce a conquistare il bronzo nei 5000 metri, oppure se le ragazze della 4x400 falliscono l’obbiettivo medaglia. Il mondo dell’atletica si nutre di questa Italia. Come ha detto di recente Filippo Tortu sulle ragazze della 4x400. «Sono nere? Non mi ero accorto, eppure ci alleniamo sempre insieme». Ci voleva un ventenne per spiegare come si vive nello sport il gioco del bianco e nero.
Ieri domenica d’agosto, ancora una volta il nostro black and white ci ha fatto tifare, sognare ed esultare: un ragazzo bergamasco, con radici marocchine, bronzo nella maratona e un ciclista trentino, reduce da otto mesi di sofferenze, campione d’Europa. Nelle settimane passate ci siamo goduti le imprese dei ciclisti su pista, la pioggia di medaglie del nuoto e quelle della scherma. L’atletica ci ha ricordato di essere lo sport con la più ampia multietnia ed oggi il medagliere racconta che bisogna ringraziare quelle famiglie che non vedono colori diversi. Inutile domandarsi se la ragazza o il ragazzo sia nato a Roma oppure in un paesino etiope. Seppur sia vero che nelle gare del mezzofondo l’origine africana aiuta per ragioni di Dna. Il calcio ha carezzato l’idea di mettere al braccio di Mario Balotelli la fascia del capitano. Ma quella bisogna meritarla anche con i comportamenti. Non conta il colore della pelle. Contano bravura, talento, cuore e senso dell’appartenenza. Solo così sei italiano vero nello sport. E nella vita.
In Italia eravamo abituati ad un monocolore, con sporadiche incursioni di atleti venuti da altre realtà o nati da genitori di altro Paese. Però campioni che hanno lasciato il segno. Ne citiamo tre, non a caso: Carlton Myers, fra l’altro portabandiera olimpico; Fiona May fantastica nel salto in lungo ed ora con figlia-erede niente male; Sumbu Kalambay il peso medio, divenuto campione del mondo, e che nella tecnica aveva poco da invidiare a Nino Benvenuti.
Oggi, invece, siamo tifosi di un’Italia diversa, più universale, definitela pure globale. Ci restiamo male se Yemen Crippa non riesce a conquistare il bronzo nei 5000 metri, oppure se le ragazze della 4x400 falliscono l’obbiettivo medaglia. Il mondo dell’atletica si nutre di questa Italia. Come ha detto di recente Filippo Tortu sulle ragazze della 4x400. «Sono nere? Non mi ero accorto, eppure ci alleniamo sempre insieme». Ci voleva un ventenne per spiegare come si vive nello sport il gioco del bianco e nero.
Ieri domenica d’agosto, ancora una volta il nostro black and white ci ha fatto tifare, sognare ed esultare: un ragazzo bergamasco, con radici marocchine, bronzo nella maratona e un ciclista trentino, reduce da otto mesi di sofferenze, campione d’Europa. Nelle settimane passate ci siamo goduti le imprese dei ciclisti su pista, la pioggia di medaglie del nuoto e quelle della scherma. L’atletica ci ha ricordato di essere lo sport con la più ampia multietnia ed oggi il medagliere racconta che bisogna ringraziare quelle famiglie che non vedono colori diversi. Inutile domandarsi se la ragazza o il ragazzo sia nato a Roma oppure in un paesino etiope. Seppur sia vero che nelle gare del mezzofondo l’origine africana aiuta per ragioni di Dna. Il calcio ha carezzato l’idea di mettere al braccio di Mario Balotelli la fascia del capitano. Ma quella bisogna meritarla anche con i comportamenti. Non conta il colore della pelle. Contano bravura, talento, cuore e senso dell’appartenenza. Solo così sei italiano vero nello sport. E nella vita.