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Corsivi e commenti
Tornelli
Corriere della Sera
In Rete circola un video che si segnala per il suo alto valore civile e morale. Riprende una folla di estroversi che fanno la coda al capolinea della Cumana, il claudicante trenino che collega Napoli alla costa flegrea, in attesa di un fesso che infili un biglietto nel tornello, dando loro l’opportunità di passare a sbafo. Il clima è allegro, festoso, nulla a che spartire con la mestizia delle nazioni meno evolute, dove una fiumana di solitudini oltrepassa la barriera elettronica a testa china, dopo avere strisciato il tagliando nella fessura apposita. Al capolinea della Cumana si respirano solidarietà e fiducia. Neanche un controllore a turbare la purezza del quadro, appena sporcato dai soliti originali, pochi per la verità, che vorrebbero pagare ma non osano e girano intorno alla biglietteria con imbarazzo.Finalmente il fesso viene trovato. Il tornello scatta come per magia e la comitiva di rispettabili cittadini si compatta in scia per impedirgli di chiudersi. Sembra la traversata del mar Rosso: vecchi, donne, bambini, adulti in costume da bagno e materassino gonfiabile. Nessuno di loro ha la sensazione di venire meno a un dovere. Tutti di esercitare un diritto: quello di contestare l’infima qualità del servizio rifiutandosi di pagarlo. Finché lo finanzierà un passeggero su cento, il servizio continuerà a fare schifo, ma quale notabile oserà spiegarlo agli altri novantanove? Oltre a perdere i loro voti, poi gli toccherebbe farlo funzionare davvero.
Nel mio prima l’italiano corretto, con le coordinate e le subordinate in ordine, un lessico decentemente attrezzato, possibilmente non troppa cadenza dialettale, è strumento basilare per chi fa politica. Non pretendo che le persone semplici parlino correttamente (anche se aiuta: e ci sono pastori sardi, forse con la terza media, che parlano come un libro stampato). Ma un ministro, sì. Chi prende la parola nella Polis deve avere le parole in ordine, perché il linguaggio è specchio del pensiero, e viceversa (dev’essere anche per questo che non ho mai simpatizzato per Di Pietro; non per caso molto amato dalle parti di Grillo).
Ma questo, ripeto, è il mio prima e Toninelli, che è sicuramente un bravissimo ragazzo e sarà certamente un ministro all’altezza dei tempi, incarna il dopo. I suoi requisiti corrispondono, evidentemente, a quanto richiesto qui e ora. L’unica cosa che chiedo, di qui in poi, è se per favore, senza disturbare nessuno, nel mio angolino posso continuare a preferire uno che parla come Cacciari a uno che parla come Toninelli.
Michele Serra
Tutto ciò è venuto meno nell’ultima parte del secolo scorso, quando si è decretata la fine di quell’esperienza, giudicata insostenibile in ragione dei costi di un’economia pubblica considerati non più sostenibili. La stagione delle privatizzazioni, oggi sul banco degli imputati, trasse origine da un giudizio duramente negativo su un sistema delle imprese pubbliche che, da un lato, appariva sempre meno orientato all’efficienza e, dall’altro, aveva dato luogo a un intreccio sempre più stretto e perverso col mondo politico. Nell’opinione di un protagonista della storia economica della seconda metà del Novecento come Guido Carli, per esempio, era questo nodo che bisognava aggredire per bloccare il processo involutivo dell’Italia. Eppure, il giovane Carli si era formato nell’ambiente dell’Iri e c’è da credere, come testimoniano le sue memorie, che non fu facile per lui lavorare all’estinzione di un universo di cui era stato parte.
Con le privatizzazioni, decretate in una situazione d’urgenza in cui si mescolavano ragionamenti economici e sollecitazioni politiche, si giudicò possibile venire a capo di una serie di contraddizioni italiane semplicemente smontando pezzo dopo pezzo la complessa macchina delle Partecipazioni statali. Ciò che non fu chiaro era che così si poneva termine a un modello il quale aveva orientato fin lì l’intero percorso di sviluppo dell’Italia unita. Tuttavia, privatizzare non poteva equivalere solo a un rovesciamento di segno rispetto a quando era lo Stato a gestire le imprese. Si sarebbe dovuto comprendere che, in una nazione con la storia dell’Italia, quest’obiettivo richiedeva una completa ridefinizione del rapporto tra le funzioni dello Stato e l’iniziativa economica privata. Invece, nella realtà, è successo soltanto che lo Stato ha abdicato ai suoi compiti, in contrasto con la sua lunga storia di interventismo. Così non si è verificato proprio quel che le privatizzazioni avrebbero dovuto garantire, cioè una distinzione più netta fra la classe politica e gli interessi economici diretti. Al contrario, siccome non sono state create o rese attive le istituzioni che avrebbero dovuto vigilare sui comportamenti dei soggetti imprenditoriali cui era stata delegata la gestione delle imprese ex pubbliche, ecco che la sfera opaca della collusione fra politica ed economia, lungi dal rarefarsi, si è consolidata.
Come rimediare alla situazione così insoddisfacente che si è creata? Con le nazionalizzazioni, come si propone da più parti con insistenza? Una scelta simile porterebbe a ripristinare una condizione d’origine con un’operazione praticamente impossibile. Anzitutto, perché lo Stato imprenditore non esiste da tempo e non è più in possesso delle dotazioni necessarie a governare complessi meccanismi d’impresa. Del resto, già negli anni ’80 era evidente che aveva dissipato buona parte dei suoi talenti. E dunque?
La strada, certamente difficile e impegnativa da percorrere, rimane quella di una revisione complessiva dei rapporti fra Stato ed economia. Si tratta di avere la consapevolezza che lo sviluppo economico italiano si è eretto su un forte ruolo dell’intervento pubblico. È evidente che oggi non può essere interpretato come ai tempi in cui Giolitti nazionalizzò le ferrovie. Ma esso va riqualificato e rivitalizzato con nuove competenze, capacità e poteri (senza dover inevitabilmente passare da un sovraccarico di funzioni in capo alla Cassa depositi e prestiti).
Giuseppe Berta
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