Corriere della Sera, 5 agosto 2018
Quando la sponda ricca del Mediterraneo era quella meridionale
Il Mediterraneo è, oggi, un mare di grandi divergenze. Da un lato, c’è un Nord sviluppato, capace di generare prosperità e sicurezza; dall’altro, un Sud arretrato, ribollente di tensioni e ostilità. Ma non è stato sempre così. Per molti secoli, la condizione è stata opposta. E, per colmare le differenze, il cammino dell’Occidente europeo è stato lungo e intricato, con andirivieni tipici del tracciato storico.
A cavallo dell’anno Mille, le differenze tra Nord e Sud erano abissali. Basta leggere un curioso episodio, avvenuto nella prima metà del X secolo. Un gruppo di viaggiatori musulmani compie una lunga spedizione in terra cristiana. Vogliono andare a Roma, spinti dai racconti sulle ricchezze della città. Fanno un giro tortuoso, via terra. Da Tessalonica, nell’allora Impero bizantino, passano nei Balcani. Da qui a Venezia e poi a Pavia, la capitale del Regno d’Italia. Attraversano la Pianura padana e si trovano in un incubo: lo spettacolo indecente di tende e capanne, abitate da una massa derelitta e macilenta. Uno shock, per gente di città, come erano i nostri viaggiatori. Ai quali resta un’idea: che, in questa zona d’Italia, si viva ancora come i barbari. «Alla maniera dei Curdi», scrivono.
Perché era così, l’Europa del tempo. Era il mondo in cui, come è stato detto, la preistoria irrompe di nuovo nella storia. Per miglia e miglia nient’altro che foreste e paludi. Qua e là, come oasi in un deserto, piccoli centri abitati, autosufficienti nel loro isolamento. Di città e di mercati, quasi solo ombre. Dappertutto castelli, per difendersi da nemici, lontani e vicini. Poche le persone. Tanti contadini, in una condizione di sfruttamento totale, legati a vita al proprio campo. Poi c’era chi pregava. E chi combatteva. Ed era tutta qui la società del tempo. Un ambiente depresso, in cui i livelli di vita, l’istruzione, la divisione del lavoro, l’uso di moneta erano ridotti al minimo. E l’unica speranza di qualche gioia era altrove, nell’aldilà della Chiesa romana, in un tempo ultraterreno di redenzione e di attesa.
Strano, questo continente. Chiuso, come scrive Chris Wickham nel libro L’Europa nel Medioevo (Carocci), tra le civiltà della Spagna araba ad ovest e dell’Impero di Bisanzio a est, con pochi sbocchi verso il mare. Ai musulmani questo Occidente non interessava, a differenza dell’altra area più avanzata del mondo di allora, la Cina, che ispirava in loro un’ammirazione aperta, per il suo sistema amministrativo e giudiziario, l’ordine sociale, l’organizzazione economica, la trama delle città. L’Europa no. Esiste come concetto, che in arabo diventa Arufa, che si ritrova nel X secolo in geografi come Hamdani per indicare il quadrante nord-ovest del mondo abitabile. Ma l’attenzione verso questo Occidente barbaro, incolto, privo di ogni bellezza, dai confini incerti, era irrilevante, se non come terra da saccheggiare. Abitato da gente, come i Franchi o i popoli nordici, dalle lunghe barbe e dagli stranissimi occhi azzurri, che vivevano in condizioni ambientali al limite del sopportabile, in terre gelide e irraggiungibili, osservati dai pochi viaggiatori musulmani con stupefazione, descritti come riprovevoli, sporchi – «i più sporchi del mondo» —, che «si accoppiavano brutalmente», idolatri, crudeli, feroci.
Dietro questi ritratti c’è, naturalmente, molto di ideologico. In particolare, l’idea di superiorità religiosa e culturale. Che derivava però da un dato di fatto: i musulmani che visitavano l’Occidente venivano davvero da un diverso pianeta, più avanzato per condizioni e abitudini sociali. Uomini che appartenevano a una civiltà dell’acqua, dell’Hammam (le terme), delle fontane, della pulizia, dei profumi. Con livelli di cultura e di istruzione progrediti, che, proprio in questi secoli, esprimono quello che Frederick Starr ha di recente definito un «illuminismo perduto», quando tra il Mediterraneo e l’Asia centrale musulmana fioriscono commerci, arti, centri religiosi e di istruzione. E tutti i campi della conoscenza – dall’astronomia alla matematica, dalla filosofia alla medicina – conobbero sviluppi con pochi eguali nella storia dell’umanità.
Tutto questo avvenne in città. Perché se c’è un dato sensibile che caratterizza la civiltà musulmana è proprio quello dell’edificazione di città. Che formano una rete e riuniscono ciò che era stato separato dal lungo conflitto tra Parti e Bizantini e condizionano lo sviluppo economico globale, dal Sudan all’India, dalla Cina al Sud Italia. Da ovest a est nascono – o rinascono – città come Cordova, Damasco, Il Cairo, Tunisi, Kufa, Shiraz, Samarcanda, Bukhara, Palermo. E poi la più grande metropoli del tempo, con più di un milione di abitanti: la dimora del califfo, la città circolare, Bagdad.
Dal Mille in poi, però, nel malandato Occidente successe qualcosa. Innanzitutto, durante il periodo 950-1300 la popolazione europea si moltiplicò, più o meno, per tre. Rinacquero tantissime città e il loro numero, in alcune zone, come l’Italia centro-settentrionale e le Fiandre, crebbe considerevolmente. I commerci e i mercati tornarono a vivere e la nuova figura del mercante si impose per la sua ideologia improntata all’intraprendenza. Si cominciarono a produrre merci, soprattutto nel settore tessile e metallurgico. Aumentò la specializzazione artigianale, a dismisura, con una complessità inimmaginabile nella diversificazione della forza lavoro. Avvenne una rivoluzione tecnica che interessò le campagne, la nascente industria, il mondo della navigazione. Però, tanti aspetti di questo processo restano quasi incomprensibili. Come, ad esempio, in quale momento sia cominciata l’espansione demografica; oppure quando gli scambi di merci a lunga distanza siano diventati così importanti da condizionare il complessivo mondo economico europeo.
In ogni caso, le variabili in campo furono davvero tante, che toccarono ogni aspetto della società del tempo; e che potremmo condensare in un’unica parola, vitalità. Come scriveva infatti Carlo Maria Cipolla «quando una società dimostra di essere vitale lo dimostra a tutti i livelli, e non solo in quello economico, facendo di più e meglio di quanto fanno o hanno fatto altre società disponendo di eguali risorse». Insomma, per intenderci, non si possono capire i mercanti italiani senza quell’ambiente eccezionale composto da personalità come San Francesco, Dante, Giotto o Mondino di Luzzi, che rivoluzionò gli studi di anatomia.
Ma se c’è un fattore che fece davvero la differenza in questa rinascita occidentale fu, per me, la curiosità. Sembra sorprendente che in un’epoca di rinnovata aggressività, fatta di Reconquista e di crociate, emerga pure qualcosa di nuovo. Si comincia a intuire appunto come anche il dialogo con l’altro – il diverso, il concorrente, il nemico religioso – possa risultare per molti aspetti fruttuoso. Per prime, mettono in campo questa strategia le nostre città marinare, da Amalfi a Genova, da Pisa a Venezia. Lo fanno alternando l’uso della forza. Ma tante volte, specialmente all’inizio, esse si adattano al mercato musulmano, vendendo ad esempio merci di contrabbando, armi, schiavi. Poi gli occidentali riescono a fare di meglio: apprendono da chi ne sa di più, imitano gli altri e trasformano le conoscenze acquisite in proprio bagaglio culturale. Lo fa Leonardo Fibonacci, che impara i numeri «alla maniera degli Hindi», ma esporta queste conoscenze in Occidente, con un sovrappiù di nozioni che elabora nel suo Liber abaci. Lo fa Gherardo da Cremona, monaco che emigra in Spagna e mette su, a partire circa dal 1150, nella multietnica Toledo, sotto l’egida di re Alfonso VI di Castiglia, un atelier di traduzione nel quale impegna intellettuali arabi, ebrei e cristiani per restituire all’Europa le parole di Aristotele e di Tolomeo. Ci riescono con successo i fiorentini, che per primi riportano monete d’oro in Occidente, dopo lunghi secoli di buio monetario, seguendo ciò che avevano fatto per secoli bizantini e musulmani. Oppure, per gareggiare nella produzione di tessuti, si ingegnano (come fanno oggi i cinesi) a imitare i modelli fiamminghi di Bruges, Anversa o Gand, creando nuovi prodotti che conquisteranno il Mediterraneo e faranno grande l’economia cittadina.
Tre secoli di crescita, dal Mille al Milletrecento circa, che diminuirono la distanza col resto del mondo e tra Nord e Sud. Fu questo il Medioevo della rinascenza europea. Impossibile però da realizzarsi senza declinare i valori di scambio e curiosità, alla base di un’epoca che si mostrò tanto più aperta e innovativa di quanto oggi erroneamente si pensi.