La Lettura, 22 aprile 2018
Il romanzo del fascismo di Scurati
Le tracce del gigantesco laboratorio narrativo avviato da Antonio Scurati diversi anni fa sono qui, ben visibili, nel suo studio di via Pinturicchio a Milano. Una biblioteca carica di saggi, biografie e memoriali su Mussolini e il regime, cartoni con schemi e cronologie manoscritte, quaderni neri di riassunti e appunti. Appesa in un angolo la prima pagina dell’«Unità» del 29 aprile 1945 con titolo cubitale su due righe: «MUSSOLINI E I SUOI ACCOLITI giustiziati dai patrioti in nome del popolo». È il laboratorio nato con le ricerche per Il tempo migliore della nostra vita, il romanzo sulla Resistenza apparso nel 2015 da Bompiani, il cui protagonista è il «combattente mite» Leone Ginzburg. In quella stessa officina, rovistando tra i libri e tra le carte che si sono aggiunte negli anni, facendo sopralluoghi, andando per archivi e lasciandosi prendere dalle suggestioni storiche, Scurati ha elaborato il suo progetto più ambizioso: una grande narrazione letteraria che raccontasse il ventennio in una prospettiva nuova, dal punto di vista dei protagonisti, a cominciare da Mussolini, entrando nelle loro giornate, nelle loro vite private e nei loro pensieri. Un progetto in tre tappe dalla fondazione dei fasci di combattimento nel marzo 1919 al tragico epilogo di piazzale Loreto e il cui primo volume è qui in bozze in attesa di uscire (in settembre) sempre per Bompiani.
Si intitola M il figlio del secolo, si conclude poco dopo il delitto Matteotti e nelle sue 848 pagine chiama a raccolta decine di personaggi grandi, minori e minimi, da d’Annunzio a Marinetti, da Margherita Sarfatti a Rachele, amici fidati diventati nemici, nemici diventati amici zelanti, intrecci di destini più o meno oscuri, i vari Nicolino Bombacci, Cesare Rossi, Roberto Farinacci, Leandro Arpinati… Un arco di anni ricostruito come un mosaico di brevi sequenze narrative in progressione cronologico-diaristica, aperte sempre da un luogo e da una data. E quasi a testimoniare che il narratore lavora sì di immaginazione, ma sempre sorretto dal documento, Scurati ha inserito, dopo ogni breve capitolo, materiali ufficiali, lettere, dispacci, proclami, mozioni, discorsi, articoli, rapporti segreti eccetera. Un montaggio che scandisce il ritmo, creando messe a fuoco e distanze variabili. È un progetto coraggioso e un po’ folle che contiene diverse sfide.
«Un giorno – ricorda Scurati – studiando ancora la vicenda di Leone Ginzburg, guardavo un filmato Luce con il celebre discorso di Mussolini alla Fiera del Levante di Bari e a un certo punto, davanti al faccione del Duce mi sono detto: ma questo qui non l’ha mai raccontato nessuno… Pensavo naturalmente al punto di vista del romanziere, non dello storico. Per un attimo l’ho fissato con occhi spogli della pregiudiziale antifascista, cioè della lettura ideologica di condanna definitiva, che io stesso condividevo a pieno. L’ho osservato per la prima volta come materia narrativa».
Non si è scoraggiato di fronte a una bibliografia così sterminata?
«A parte le biografie e le monografie canoniche come l’opera di De Felice, all’inizio sono andato avanti in maniera un po’ rapsodica, a folate: ho seguito piste istintive di congenialità. Poi sono passato alle biografie di parte fascista, coeve o successive: per esempio quella di Pini e Susmel pubblicata nel 1952 dalla Fenice. La storiografia minore e la memorialistica fascista sono state completamente obliate nel dopoguerra perché ritenute non solo inattendibili ma insignificanti».
Com’è andata materialmente?
«Mi è stata molto utile la biblioteca dell’Istituto Parri a Milano. Ho schedato e annotato, ho cercato di tradurre i libri in appunti e tabelle che a loro volta mi rimandavano ai libri. In ciascuna di queste piccole notazioni – vede qui tra parentesi? – ci sono i rinvii ai volumi. Per i fatti di rilievo storico, bastano i libri canonici, ma le cose si complicano se vuoi ricostruire un momento che il romanziere ritiene di dover raccontare perché rappresenta un’epoca o un’atmosfera».
Un esempio?
«Per certi episodi sono andato a vedermi l’“Avanti!” o “il Popolo d’Italia” oppure certi libri che contengono le cronache del tempo. Per tanti altri, come la giornata in cui Giacomo Matteotti si trova con la moglie al Palio di Siena e viene scacciato dai fascisti, mi è servito quel formidabile strumento che è l’archivio storico del “Corriere della Sera”. E poi c’è la memorialistica di quei personaggi satellitari nel sistema solare tolemaico al centro del quale c’era Mussolini. Fatto il lavoro di studio, le 800 pagine le ho scritte in un tempo brevissimo, mi vergogno quasi a dirlo: meno di un anno».
Con quali ritmi nella giornata?
«Per ciascuno dei brevi capitoli che compongono il libro la mattina mi serviva per passare in rassegna tutti i materiali e le annotazioni relative a quell’episodio, poi dopo pranzo scrivevo con uno sforzo di sintesi. E la sera svenivo…».
Non teme che il racconto impostato sul punto di vista dei fascisti venga interpretato in chiave di revisionismo o di memoria condivisa?
«L’idea di memoria condivisa per me è un’aberrazione, se è intesa come una sorta di equipollenza tra due narrazioni divergenti e inconciliabili che stanno sullo stesso piano. Io penso che la narrazione antifascista, adottando, legittimamente e inevitabilmente, il paradigma delle vittime, ha cancellato il punto di vista umano, politico, ideologico degli attori della violenza fascista».
Nessuna ambiguità ideologica?
«A me interessa, rimanendo antifascista, raccontare il fascismo attraverso i fascisti, il che non significa aderire alla loro ideologia. È arrivato il momento di rifondare l’antifascismo senza confidare sullo stigma, il che comporta anche una riappropriazione narrativa: la possibilità di raccontare con la libertà e anche con i rischi che corre la narrazione letteraria. L’intera parabola storica del fascismo ha uno straordinario tasso romanzesco, in quanto contiene intrecci e destini incredibili e largamente disconosciuti. Io stesso rimanevo spesso strabiliato dagli accadimenti e da certi personaggi che andavo raccontando».
Per esempio?
«Per esempio Nicola Bombacci, che sin da giovane era stato amico di Mussolini, romagnolo come lui, e come lui maestro di scuola nello stesso paese. Era considerato il Cristo degli operai, il Lenin di Romagna: ebbene l’eroe della promessa rivoluzionaria comunista vive una peripezia esistenziale che lo porta a essere appeso in piazzale Loreto vicino a Mussolini… Aldo Finzi, un fascista quintessenziale che sarà fucilato alle Fosse Ardeatine, perché alla fine decide di ricongiungersi alla religione dei padri…».
Il giorno in cui venne ucciso, Matteotti indossava davvero un paio di scarpe bianche di camoscio, così come viene raccontato nel romanzo?
«Nessuna invenzione. Mi piacerebbe mettere un disclaimer iniziale al contrario, in cui si dica: in questo libro ogni accadimento, personaggio, dettaglio, ogni parola pronunciata, tutto è storicamente documentato o autorevolmente testimoniato. Dunque, anche le scarpe di camoscio di Matteotti. Nella mia concezione si tratta di un romanzo documentario, come esiste il film documentario. Mi sono effettivamente attenuto a questo criterio: tre indizi fanno una prova. Non solo gli accadimenti di statura storica, ma anche gli episodi minori, gli aneddoti e i dettagli secondari o la battuta salace di Mussolini, la bestemmia “boia de ‘n signur”, io li riporto solo se c’è un riscontro documentario o testimoniale. Lo sforzo è stato poi quello di dare a tutta questa materia una messa in scena romanzesca».
Come in certe pagine di intimità: c’è un incontro segreto tra Margherita Sarfatti e Mussolini in cui lui non fa che guardare il suo cappello…
«Gli indizi che riconducono a quel giorno e a quell’albergo sono tanti e certi: la Sarfatti che deve rivedere il discorso che Mussolini pronuncerà a Fiume, il suono di una campana, eccetera. Ma al romanziere interessa soprattutto un appunto autobiografico in cui Mussolini dice: nessuna donna potrà vantarsi di essere uscita soddisfatta dalla mia intimità. E aggiunge che dopo pochi minuti che ha consumato l’amplesso il suo sguardo va inevitabilmente verso il cappello».
Perché l’esigenza di aggiungere brani di documenti pubblici e privati coevi dopo ciascun capitolo?
«All’inizio per certificare che ciò che il lettore aveva letto nella messinscena romanzesca era storicamente fondato. Poi i documenti hanno cominciato a tessere una sorta di sottotrama autonoma: alcuni testi sono di una bellezza e di una forza rivelatrice anche per il dialogo che stabiliscono tra di loro. Nel libro non esiste senno di poi, e colpisce come i protagonisti della storia spesso siano ignoti a se stessi, non capiscano quel che sta accadendo».
Si rende conto che se continua con il passo del primo romanzo, la trilogia non basterà?
«Vedremo. I primi anni hanno occupato più spazio perché sono quelli in cui cambiano un mondo e un’epoca, quelli della conquista di un potere. Nel mio calendario prevedo tre volumi in tre anni. Da grande appassionato di telefilm, volevo sfidare la serialità televisiva, un modello di racconto che abbraccia un ampio arco di tempo, come ne Il Trono di Spade : provare a trapiantare in letteratura quel tipo di affabulazione in cui si narrano le lotte di potere e le tragedie che comportano…».
La preoccupazione filologica non può frustrare la libertà immaginativa del narratore?
«No. Alla fine è vero quel che scrive Enzensberger in quel meraviglioso libro documentario che è La breve estate dell’anarchia : mi rendo conto che la storia è un’invenzione a cui la realtà apporta i suoi materiali. La storia degli uomini è sempre un fascio di storie, l’insieme di quel formicolio di storie da bar, di voci delle taverne e del mercato. Riscrivendola la reinventi, c’è poco da fare, ed è un brivido sapere che quella storia sopravvive solo nella misura in cui tu la racconti. Farlo con rispetto ha un effetto vertiginoso che nessuna libertà creativa intesa nel senso più comune può avere».