Corriere della Sera, 15 marzo 2018
Paradosso plastica
Nel meraviglioso La versione di Barney, il capolavoro di Mordecai Richler, il protagonista, lamentandosi del proprio inesorabile declino fisico dovuto alla vecchiaia, diceva «Adesso che mi hanno anche messo un’anca in plastica, gli ambientalisti mi negheranno il diritto alla sepoltura».
Probabilmente ci arriveremo. Non per colpa di Barney, però, perché il suo è uno dei casi in cui è difficile fare a meno di questo materiale.
Da un punto di vista chimico, una plastica è un polimero – praticamente una sorta di trenino molecolare – ma con due differenze. Primo, al posto dei vagoni ci sono delle molecole; secondo, queste molecole sono molte, molte di più dei vagoni di un treno. Una tipica plastica che conoscono tutti – il polietilene ad alta densità, o HDPE, che avvolge il nostro nuovo spazzolino da denti – è formata da qualche decina di migliaia di unità molecolari.
Per dare l’idea, un treno fatto da diecimila vagoni non avrebbe nessun bisogno di partire per portarci da Firenze a Milano, visto che coprirebbe l’intera tratta semplicemente stando fermo...
I polimeri, queste lunghe catene di molecole, non sono nate nei laboratori di noi chimici cattivi; la natura è maestra in polimerizzazioni e produce una notevole quantità di polimeri di ogni tipo, strutturali come la cellulosa, che è un polimero del D-glucosio, o liquidi come il caucciù, la resina degli alberi di Hevea Brasiliensis. A differenza dei polimeri di sintesi, però, i polimeri naturali hanno solitamente una caratteristica molto importante: sono biodegradabili, ovvero possono essere smontati e ricondotti al loro stato originario di vagoni singoli da batteri e altre specie viventi.
Ora, un materiale non è necessariamente cattivo per il fatto di non essere biodegradabile, o di esserlo molto poco: se tale materiale serve per costruire una casa, o deve custodire delle scorie nucleari, per esempio, io questo materiale lo vorrei più duraturo possibile. In effetti il cemento, un ingrediente abbastanza fondamentale per i nostri edifici, non è affatto biodegradabile. Così come non sono biodegradabili le migliaia di chilometri di guaine isolanti che avvolgono e ricoprono, in ogni angolo del mondo, i cavi elettrici.
Già, l’isolamento elettrico. La nostra vita negli ultimi cento anni si è sviluppata in gran parte grazie alla possibilità di usare l’elettricità come mezzo per trasportare energia – un computer a carbone sarebbe molto più inquinante del mio laptop, e sarebbe difficile portarselo dietro per lavorare in treno. Questo ha reso possibile cosucce come l’illuminazione elettrica, gli elettrodomestici, i computer. Fare un impianto isolante in legno sarebbe molto più laborioso – e rischierebbe di bruciarsi.
In pratica, la nostra civiltà così come la conosciamo non ci sarebbe stata, senza la plastica. Ma, al tempo stesso, il mondo in cui viviamo rischia di ritrovarsi inquinato senza via di scampo, a causa della plastica. In che modo si può risolvere il problema?
Una via ci viene suggerita proprio dai possibili utilizzi della plastica. La produzione mondiale di polimeri cresce a ritmo esponenziale (intendo matematicamente esponenziale, cioè come l’anno in corso elevato a una potenza maggiore di uno) ma solo una minoranza di questa produzione viene impiegata per scopi strutturali, cioè per costruire edifici, macchinari industriali o componenti. La maggior parte della plastica da noi prodotta (nel 1990 erano cinquanta milioni di tonnellate l’anno, nel 2015 quasi il triplo) viene usata per il packaging. Per fabbricare confezioni che poi si buttano via. Proprio qui sta il rovescio della medaglia: perché, attualmente, solo il 9% della plastica che buttiamo viene riciclata, e circa il 12% viene incenerito. Ci rimane sul gobbo un 79% di roba che, semplicemente, buttiamo via.
Non è un problema facile, e non si può risolvere con un articolo di quotidiano – biodegradabile, peraltro. Ma se è vero che il riciclo e il riutilizzo della plastica che buttiamo via è un problema che va affrontato, credo personalmente che si possa agire anche a monte, e che l’utilizzo della plastica per scopi non strutturali andrebbe severamente regolamentato e, in certi casi, semplicemente proibito.