la Repubblica, 4 novembre 2017
Se le manette spingono la Catalogna nel baratro
Le ultime battute della crisi catalana sembrano quasi giustificare l’impressione che il governo centrale intenda fare tutto il possibile per spingere verso un’ulteriore pericolosa radicalizzazione. Madrid si trincera dietro un legalismo di per sé ineccepibile, ma agisce come se non si rendesse conto del fatto che il diritto non è un sostituto della politica, ma soltanto un quadro che delimita il campo della politica, che a sua volta ha il diritto, e spesso il dovere, di modificarlo. L’articolo 155 della Costituzione, in concreto, autorizza un intervento del governo centrale teso a obbligare gli organi delle regioni autonome al compimento della legge. Si tratta di quello che in Italia chiameremmo commissariamento, ma i cui contenuti non sono definiti dalla Costituzione. Il governo di Madrid, tuttavia, ha applicato la norma nella sua versione più estesa e radicale, tanto che sembra ormai difficile distinguere il commissariamento da una abrogazione di fatto.Ancora più grave è l’aspetto penale. Ieri sera è stato firmato il mandato d’arresto europeo per l’ex presidente Puigdemont e i 4 ministri che lo accompagnano a Bruxelles. Il giorno prima, il vicepresidente Junqueras e sette componenti il governo della Generalitat erano stati incarcerati sulla base di un provvedimento cautelare da parte di un giudice della Audiencia Nacional (una giurisdizione speciale competente per reati contro la Corona e i membri del governo, oltre che per terrorismo e criminalità organizzata) con l’accusa di “sedizione” e “ribellione”. Sono ipotesi di reato previste dal Codice penale, ma se la meno grave, la sedizione, è descritta come opposizione all’attuazione della legge non solo con la forza, ma anche “fuori dalle vie legali”, la ribellione comporta sempre un elemento di violenza – un’insurrezione – che sarebbe molto difficile attribuire agli arrestati e ai milioni di catalani che si sono espressi pacificamente a favore dell’indipendenza. Persino chi ha ritenuto inevitabile che l’avventurismo illegale del separatismo dovesse essere fermato (fra l’altro anche per tutelare i diritti di quella metà della popolazione catalana che non ne condivide i fini e vorrebbe rimanere nello stato spagnolo) si rende conto del fatto che a Madrid sta emergendo un inquietante spirito di vendetta. Lo fa temere il tono revanscista e punitivo non solo dei politici, ma anche di alcuni magistrati, soprattutto il Fiscal General (il nostro Procuratore della Repubblica).Siamo di fronte a un insieme di spropositi giuridici e forzature politiche che, cosa di cui a Madrid sembra non esservi la consapevolezza, rischiano di far passare in secondo piano gli spropositi e le forzature di una dirigenza catalana responsabile di avere innescato questa crisi per la disinvoltura con cui ha ignorato le norme mettendo in moto un processo che era evidentemente destinato al fallimento. Se si lascia il cammino delle norme si passa a quello della forza, e non doveva essere una sorpresa che lo stato spagnolo ne disponesse e fosse pronto a usarla. Insomma, non si può pensare di istituire unilateralmente una repubblica col permesso del re. Ma adesso gli indipendentisti catalani, che non avevano il diritto dalla loro parte, possono sperare di giocare la carta delle vittime della repressione: gli esuli di Bruxelles e i prigionieri politici di Madrid. E anche di riscuotere in Europa simpatie che finora non sono riusciti ad ottenere.La strategia, se così si può chiamare, di Rajoy si compone di due elementi: elezioni catalane il 21 dicembre e dura repressione contro i dirigenti indipendentisti. Il fatto è che sembrano entrambe destinate al fallimento. Sondaggi effettuati dopo l’applicazione dell’articolo 155 fanno emergere una conferma, anzi un aumento, dei consensi allo schieramento indipendentista, mentre si può prevedere un ulteriore incremento dei consensi provocato dallo shock dell’incarcerazione dei vertici del Govern. Ma se questi saranno i risultati, come si può pensare che la repressione possa rappresentare una soluzione? L’applicazione della legge, con la sospensione dell’esercizio dell’autonomia, avrebbe avuto un senso solo se fosse stata attuata in parallelo all’avvio di un processo di riforma costituzionale finalizzata ad un riassetto del sistema delle autonomie e tale da permettere un referendum legale e regolato – non quello arbitrario, unilaterale e senza quorum del primo ottobre.La combinazione di durissime misure giudiziarie e chiusura politica rischia invece di produrre come unico risultato quello di spostare la crisi dalla politica alla piazza, dal dibattito allo scontro fisico. Come scrive il quotidiano di Barcellona La Vanguardia, che pure anche in questi tempi difficili si sforza di mantenere i linguaggi pacati della moderazione, “siamo a un passo dall’abisso.”Anche se finora, pur nell’asprezza della polemica, le cose sono rimaste sorprendentemente civili e pacifiche (altro che “insurrezione”!), si tratta di una prospettiva che non è purtroppo da escludere. Vale la pena ascoltare le parole del Presidente del governo autonomo basco, Urkullu, che – attualmente in visita in quel Canada che ha dato un esempio di come le aspirazioni indipendentiste possano essere affrontate e governate in modo non traumatico – ha definito i provvedimenti adottati in sede giudiziaria a Madrid come “i peggiori possibili” e ha aggiunto:”Nello stato spagnolo manca l’intelligenza politica necessaria a gestire situazioni che nascono da aspirazioni che hanno una base sociale importante e che dovrebbero indurre ad adeguare l’azione politica alla realtà”.