la Repubblica, 3 luglio 2017
Addio corse nei boschi, ecco com’è cambiata la mitologia del ritiro
L’ultimo romantico è Zdenek Zeman. Condannato dal suo karma a indicare sempre una strada, il boemo è l’unico che abbia ancora la forza di prendersi una cotta per una scalinata. I 628 gradini che uniscono la parte bassa di Rivisondoli al suo centro storico daranno senso e valore al ritiro estivo del suo Pescara. Per decidere gli è bastato immaginare i suoi inerpicarsi smoccolando e rotolare giù a valle smoccolando ancora di più, vederli sudare come fontane e invocare una patata in più per cena. Ma oltre le visioni di Zeman, va detto, i ritiri del secolo scorso non esistono quasi più: «E forse è giusto così, i tempi cambiano, magari ci siamo liberati dalla retorica sull’armonia del ritiro: quelli i vecchi erano monastici e non è detto che servissero così tanto a cementare il gruppo», ammette Paolo Bertelli, fitness coach del Chelsea di Antonio Conte, con lui nei tre scudetti juventini, a Trigoria per la prima era Spalletti. Il sapore da pane e salame del ritiro raccontato da Alberto Sordi nelle vesti dell’esaltato ma dubbioso proprietario del Borgorosso è un immagine screpolata, aggredita dalla modernità. Il test di Cooper, i leggendari 12 minuti mutuati dalla Nasa in cuibisognava ricoprire, solitamente nei boschi, la distanza più lunga possibile (Liedholm stravedeva per il cimento e per come vi si dedicava in particolare Ancelotti), è stato soppiantato dal merchandising e dalle indagini di mercato. La preparazione fisica e l’investimento dei club si sono trasformati al punto da «rovesciare la storia», racconta Vincenzo Pincolini, co-autore “fisico” del Milan di Sacchi e di Capello, «una volta le tournée duravano 35 giorni ma venivano programmate alla fine della stagione, la società faceva soldi, c’erano partite in Oriente che al Milan portavano un milione di dollari a botta, ma era tutto più sensato perché al termine del campionato si poteva anche viaggiare per il mondo senza rischi, invece adesso dopo 4 giorni si parte per gli Stati Uniti». Una volta imbarcarsi per la Cina, che non era mai vicina, corrispondeva a un’esperienza mistica, non tutti i calciatori, non tutti i dirigenti, non tutti gli allenatori sapevano a cosa stavano andando incontro. Nel ‘78 prima di salire sull’aereo Bersellini, che allora guidava l’Inter, fece testamento. Il ritiro tradizionale in cui Rocco era veramente “paron” e mandava chiunque a quel paese col suo “tasi mona”, zitto scemo, non è più praticabile, l’universo del pallone è smaliziato e va di fretta, i portieri fanno più check-in che parate: «I calciatori conoscono se stessi, non devono più scoprire il mondo». Per molti, un tempo, il ritiro era come il servizio militare, la divisa sociale era il primo abito intero che avessero mai indossato e si sentivano a disagio. Ora invece comanda il marketing, conta che siano i tifosi a vestire le magliette e più si gira e più si vende. Ora i luoghi di soggiorno vengono scelti sulla base di un calcolato ritorno di audience e che il turismo (soprattutto in Trentino Alto Adige, la meta ancora preferita) salga percentualemente anche del 30% nel periodo in cui, mettiamo, a Dimaro si esibisce il Napoli o quando il Bayern di Guardiola, pescando dalla vicina Austria, intasava festosamente Riva del Garda. Tutti contenti. Ma ormai più della cassa che del muscolo allenato. Muscolo che con l’aggiornamento progressivo delle metodologie e con l’invasione della tecnologia, gps, video- analisi, persino la realtà virtuale, non ha più così tanto bisogno di essere “spaccato” in estate per durare e/o non morire d’inverno: «È finita l’epoca in cui si pensava a costruire una base per l’intera stagione, ora siamo nell’epoca della contaminazione, della mescola di teorie e sistemi», prosegue Bertelli, «non funziona come si pensava, lo sappiamo bene». Tuttavia Pincolini un po’ rimpiange il tempo andato e forse non del tutto perduto: «Il ritiro di una volta aveva l’effetto di una colla emotiva, nascevano amicizie, l’abitudine a stare insieme, una volta il calciatore era uno sportivo adesso è solo mediatico. Van Basten continua a giocare a golf con Massaro, Tassotti, Donadoni». Una squadra non deve andare a cena perché deve, «...ma perché ci sta bene». Sponsor e affari cinesi permettendo.