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 2017  giugno 12 Lunedì calendario

Il morbo che fa perdere la testa Alzheimer: un caso ogni 3 secondi

Si scrive Alzheimer ma si legge disperazione. Senso d’abbandono, impotenza, solitudine. Sensazioni che, purtroppo, conoscono molto bene il milione e 241mila malati di demenza senile d’Italia, il 60% dei quali è alle prese con il morbo della memoria. Quello che colpisce le cellule cerebrali e riduce progressivamente le funzioni cognitive. Quello di Gene Wilder e di Margaret Thatcher e di Gabriel Garcia Marquez. E poi di Fabrizio, Barbara, Marco: ossia della gente comune. L’Alzheimer. 
I farmaci sperimentati negli ultimi quindici anni non hanno dato risultati incoraggianti. Esperti e professori ne hanno messi a punto una decina, ma la cura definitiva ancora non c’è. Il morbo di Alzheimer è dovuto alla perdita di alcune cellule del cervello che, almeno inizialmente, si lega alla presenza di una proteina tossica, la beta-amiloide. «Le medicine recenti si sono concentrate», spiega Antonio Guaita, direttore della fondazione Golgi Cenci di Abbiategrasso, in provincia di Milano, che promuove ricerche e studi sugli anziani «sul blocco della produzione di questa sostanza facendo una sorta di pulizia. Però non hanno funzionato perché la beta-amiloide è una come una molla: aziona un meccanismo che per certi versi va avanti da solo». E infatti in molti pazienti i sintomi della malattia compaiono dopo dieci o quindici anni. 
Individuare questi fattori è già un passo avanti ma «è come se fossimo di fronte a un incendio: abbiamo spento il fiammifero e le fiamme non si arrestano», specifica Guaita. Dottori e ricercatori non si danno per vinti: «La ricerca procede su due livelli: il primo, e molto meno finanziato, è capire perché le cellule reagiscono e si intaccano l’una con l’altra; il secondo è trovare il farmaco biologico in grado di colpire prima della comparsa dei sintomi». 
L’ateneo milanese Bicocca e l’Irccs hanno pubblicato uno studio condotto su alcuni animali in fase pre-sintomatica. E gli esiti, almeno in queste battute, sono positivi: i topolini che hanno subìto il trattamento di sette mesi hanno conservato la memoria e ritardato l’accumulo di betaamiloide, addirittura dopo la sospensione delle cure si è notato che le variazioni anatomiche cerebrali degli altri soggetti non interessavano il loro gruppo. Adesso il passaggio sarebbe sull’uomo, ma mancano i fondi. «Abbiamo dimostrato la possibilità di prevenire la perdita di memoria, ora bisogna trovare qualcuno che finanzi lo step successivo: non è semplice», si sfoga uno dei professori che ha firmato la ricerca, Massimo Masserini, «le case farmaceutiche sono frenate da anni di insuccessi e per arrivare a qualche risultato concreto ci servono stanziamenti considerevoli». Come a dire: è una questione di soldi. 
Nel 2015 i nuovi casi di Alzheimer dello Stivale sono stati 269mila e sono costati, complessivamente, la bellezza di 37,6 miliardi di euro. Il costo medio annuo dell’assistenza è pari a 70.500 euro a testa e grava sia sul servizio sanitario nazionale che sulle famiglie. «L’assegno di invalidità tocca in molti casi i 500 euro mensili», racconta Gabriella Salvini Porro, la presidente della Federazione Alzheimer Italia che si occupa proprio di queste tematiche, «purtroppo però sono erogazioni a macchia di leopardo: al Nord c’è più attenzione, al Sud meno». 
Visite specialistiche, badanti, ricoveri in strutture attrezzate: non è una passeggiata. E se i casi di demenza senile nel mondo proliferano a una velocità impressionante (l’associazione Alzheimer’s disease international stima un episodio nuovo ogni 3,2 secondi), solo in Italia prevede che entro il 2050 i malati raddoppieranno. «L’Oms ha approvato un piano per i prossimi dieci anni», continua Porro, «in base al quale i governi dovranno impegnarsi, per esempio stilando un report annuale. Al momento ricerche simili si fanno solo in 29 Paesi, tra cui l’Italia che però non affronta la problematica finanziaria». L’associazione segue, ogni anno, circa 5mila famiglie: «L’Alzheimer che fa terrore, neanche paura, ma migliorare la qualità della vita di queste persone è per noi un dovere». La durata media del morbo va dagli otto ai vent’anni, ma i tempi della diagnosi non sono brevi. «Le avvisaglie ci sono: ma non dobbiamo allarmarci. Dimenticarsi le chiavi a casa, anche spesso, non configura questa malattia», chiosa Porro, «ritrovarsi in strada senza sapere il perché è un campanello d’allarme».