la Repubblica, 3 aprile 2017
Rai e politica, la libertà impossibile
La mia Amaca di due giorni fa, nella quale definivo “ente inutile” la Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai e dicevo dell’ossessionante interventismo di uno dei suoi membri, il deputato Anzaldi (Pd), ha suscitato la sdegnata reazione di quest’ultimo. La polemica sarebbe di minima importanza, e per l’irrilevanza di Anzaldi e per la mia, se non chiamasse in causa, sia pure con goffaggine, una questione di primo piano come il rapporto tra media e politica. Che nella Rai trova da molti anni uno dei suoi fronti nevralgici. Cominciamo dalla goffaggine, così da poter levare di mezzo almeno un paio di sgradevoli equivoci.
Anzaldi sostiene che io sia in «palese conflitto di interessi» perché autore di Fabio Fazio e di non meglio precisate «trasmissioni di Caschetto». Capisco che l’argomento possa sollevare qualche applauso (puntualmente scattato) tra le feroci comari del web, che adorano dire la loro ignorando testo e contesto. Ma una persona che si occupa a tempo pieno della Rai dovrebbe, sulla Rai, essere meglio informata. Non lavoro più con Fazio da tre anni, non ho mai avuto rapporti di lavoro con Beppe Caschetto (che è l’agente di Fazio) e non ho collaborazioni di alcun genere con la Rai. Per giunta quell’Amaca non spendeva nemmeno mezza parola sull’infocata vicenda dei contratti dei conduttori ( Repubblica ne ha dato ampiamente conto, compresa una lunga intervista all’onorevole Anzaldi. Il quale poi, incredibilmente, si chiede come mai la direzione del giornale o il Comitato di Redazione abbiano permesso che io dicessi la mia opinione in prima pagina: dimostrando di non sapere come funziona un quotidiano).
Nell’Amaca parlavo di tutt’altro. Parlavo della micidiale e perdurante morsa padronale che i partiti politici esercitano sul servizio pubblico televisivo, con continue e pesanti intromissioni su nomine, palinsesti, assunzioni, contratti, licenziamenti, programmi, addirittura scelta degli ospiti. (Tralascio, per brevità, i notissimi casi di censura e ostracismo contro i quali la Commissione, specie negli anni di Berlusconi, non ha potuto o voluto levare un dito, pur essendo incaricata, sulla carta, di tutelare il pluralismo e la qualità della programmazione).
Sostiene Anzaldi, per dare giustificazione istituzionale alla sua inesausta attività di revisore-censore- correttore, che la Commissione deve, della Rai, «occuparsi per legge». Mi chiedo in quale codicillo di legge siano previste le decine, anzi centinaia di esternazioni del deputato Anzaldi (da «Bianca Berlinguer ha dato tanto, può bastare» a «Saviano è deprimente» a come dovrebbe essere fatta la scaletta di Ballarò). Che vanno a sommarsi alle centinaia, migliaia (da quando c’è twitter) di esternazioni di esponenti politici che negli anni, con implacabile mancanza di competenza e sovente anche di educazione, hanno sputato sentenze sulla Rai e sulle persone della Rai quasi sempre a sproposito, senza sapere niente della televisione, dei suoi modi di produzione, dei suoi problemi tecnici e artistici, del rapporto tra costi e ricavi, della distribuzione pubblicitaria, della sua autonomia linguistica.
La promessa di Renzi di non intromettersi nelle cose della Rai ha nel renziano Anzaldi la sua smentita vivente. Ho definito «ente inutile» la Commissione di vigilanza perché affidare a uomini di partito, per quanto competenti e bene intenzionati, il compito di difendere l’autonomia della Rai, è come affidare alla volpe la custodia del pollaio. Confermo la mia opinione: quella Commissione andrebbe dismessa nel nome dell’indipendenza (almeno formale!) del quarto potere. Esistono leggi, authority, governance e gerarchie interne che bastano e avanzano a guidare il servizio pubblico senza che una apposita Commissione parlamentare convochi al suo cospetto uomini della Rai per audizioni vagamente inquisitorie; e senza che dal Palazzo qualcuno twitti le sue sentenze, o telefoni ai direttori di rete per dirgli come si dirige una rete e a un direttore di tigì come si dirige un tigì. Qui lasciamo al suo lavoro il deputato Anzaldi – con il quale, sia chiaro, non ho nulla di personale – e allarghiamo il campo. Ho lavorato per venticinque anni, da libero professionista, come autore di trasmissioni Rai. Ho firmato molte centinaia di ore di dirette e di differite. Sono stato autore televisivo di Fazio, Grillo, Celentano, Morandi, Saviano, Albanese, Littizzetto, Bisio, e sicuramente ne dimentico molti altri. Per mia fortuna e forse per mio talento sono sempre stato chiamato direttamente dagli artisti avendo dunque loro, e solo loro, come punto di riferimento.
Nessuna delle persone che ho nominato aveva altro obiettivo che fare una trasmissione che avesse successo. Nessuno di loro mi ha fatto pensare di avere mandanti politici o reconditi scopi politici, anche perché l’egocentrismo dell’artista comporta una decisa sottomissione di ogni altra logica a quella dell’affermazione personale. Logica magari narcisa, ma limpida. Limpidissima. Nessuna delle trasmissioni alle quali ho lavorato (quattro Festival di Sanremo, due dei quali come autore di Grillo, gli show di Morandi e Celentano, dieci anni di Chetempochefa) aveva altro obiettivo che riuscire il meglio possibile, con gli ospiti ritenuti più adatti e i testi ritenuti più calzanti. E nessuna, con mio vivo sollievo, è stata imputabile di avere reso alla Rai meno di quanto alla Rai fosse costata.
Ma tutte, indistintamente, sono state oggetto di controlli, pressioni, “consigli”, polemiche o intimidazioni da parte di esponenti della politica. Di quasi tutti i partiti. Perfino lo show di Gianni Morandi (noto eversore) nel 2002. Durante il quale mi è capitato anche che una gentile signora leggesse alle mie spalle quello che stavo scrivendo – qualcosa tipo “ed ecco a voi Paola Cortellesi” – per controllare che non ci fosse nulla di politicamente sconveniente.
Ovviamente spettava al gruppo di lavoro difendere la trasmissione e l’artista. Ho lavorato con funzionari Rai dalle spalle larghe (parecchi) che dicevano agli autori «andate avanti e non preoccupatevi» e con funzionari Rai pavidi (pochi) che dicevano «ragazzi per carità non mettiamoci nei guai». Ho lavorato con produzioni esterne molto protettive nei confronti di artisti e autori, e con produzioni esterne più preoccupate di non dispiacere ai dirigenti Rai, in vista di nuovi appalti. Ho sempre avuto ben chiaro, comunque, di lavorare per la televisione e non per la politica. Trovandomi sempre, immancabilmente, a dover fare i conti con il vaglio padronale (non trovo altra parola) della politica. Con le infinite proteste e pressioni (quando lavoravo con Fazio) di chi si autoinvitava, o non voleva che invitassimo altri.
Un capitolo a parte, per me doloroso, è Beppe Grillo. Ho scritto di avere fatto due Sanremo con lui (’90 e ’91, direi), ma in realtà ne ho fatti tre. I primi due come suo autore, con il direttore di Raiuno Fuscagni che nel suo ufficio dell’Ariston leggeva (faceva finta di leggere) un foglietto a quadretti sul quale avevo riassunto in poche e vaghe frasi l’intervento serale di Beppe. Un puro pro-forma, molto democristiano e molto funzionale, per salvare i rispettivi ruoli. Io dicevo a Fuscagni: mi scusi sa, ma Beppe è uno che improvvisa, non possiamo mica pretendere di mettere nero su bianco. Lui annuiva con aria grave e aggiungeva, sempre per la forma, «mi raccomando, niente su Pertini», o «lasciate stare il Papa», che non c’entrava niente ma dava l’idea di una supervisione della Rete. Grillo ovviamente disse quello che voleva: si era guadagnato sul campo, da artista, il potere di farlo. Il suo interlocutore non era “la politica”. Era il suo pubblico, ed è così per ogni artista, dal più bravo al meno bravo, dal più celebre al più oscuro.
Il terzo Sanremo – ben diverso – che ho fatto “con Grillo” è quello del 2014, condotto da Fabio Fazio nel mio ultimo anno di collaborazioni con la Rai. Barricati dentro l’Ariston mentre Grillo, davanti al teatro, arringava una (piccola) folla dicendo cose spaventose contro le persone che, dentro l’Ariston, stavano lavorando. Per dire quanto è strana la vita: uno degli artisti più boicottati dalla politica che, diventato leader politico, attaccava violentemente un altro artista e i suoi autori.
La serata inaugurale venne interrotta da uno spettatore, mandato non si sa da chi, che minacciò il suicidio perché era disoccupato. Grillo disse che era «tutto preparato», una montatura della Rai per avere audience: una truffa ai danni del pubblico. Da autore del Festival la giudicai un’accusa infamante. Calunniosa e totalmente falsa. Si discusse se querelarlo, si stabilì di non farlo, si sbagliò a non farlo: ci vorrà pure un argine, contro la prepotenza della politica.
Infine, e ripensandoci, non è un conflitto di interessi, ma una perfetta coincidenza di interessi ad avermi spinto, negli anni, a scrivere sulla Rai, da autore Rai, sempre la stessa cosa, fino alla noia: viva l’autonomia della Rai, abbasso le intromissioni e le manomissioni della politica. Decine di amache e di articoli, a ritroso negli anni, penosamente ripetitivi: come accade a chiunque si occupi di Rai e ancora si illuda che possa esistere, chissà dove e chissà quando, una televisione pubblica indipendente dai partiti.
Importante: la mia opinione non è affatto quella di un “antipolitico”. Ho un rispetto profondo dell’autonomia della politica, che è un difficile e meritorio mestiere. Ma pretendo uguale rispetto per chi fa un altro mestiere. Quando la politica parla della Rai sta parlando di persone, del loro lavoro, delle loro competenze. Non di pedine da strapazzare o indorare a seconda di come conviene, di come tira l’aria, di come il dito clicca nella demente rincorsa a chi è più veloce a dire la sua.