la Repubblica, 10 febbraio 2017
L’autista di Lama e il capo autonomo. «Sapienza, ferita aperta 40 anni dopo»
ROMA Le foto di quel giorno di 40 anni fa sono squadernate sul tavolo: «Questo sono io», Antonio Lippa indica con il dito un’immagine che lo raffigura dietro al leader della Cgil, Luciano Lama, che pallido, la pipa stretta in bocca, guadagna l’uscita dall’università di Roma rincorso da centinaia di autonomi: “La cacciata di Lama”, appunto, lo psicodramma della sinistra italiana. Un trauma così profondo, anche a distanza di decenni, che quando arriva l’autonomo Vincenzo Miliucci, il leader dei duri del Collettivo di via dei Volsci, i due “nemici” si stringono la mano abbassando lo sguardo. «Voi del Pci poi costruiste un dossier infame contro di noi, in un fotomontaggio venni raffigurato con un bastone in mano!», lo affronta Miliucci. «Se questi sono i presupposti meglio non discutere con lei», gli ribatte Lippa. «La ferita è ancora aperta, vedo», alza la voce Miliucci. «Certo che sì», dice Lippa scosso.
Perché l’aggressione a Lama ci parla ancora oggi? Lippa e Miliucci da ragazzi avevano militato entrambi nel Pci. «Facevo il panettiere, guadagnavo 200mila lire al mese, bazzicavo la sede di Centocelle: mi chiamavano il socialdemocratico», racconta Lippa. Miliucci è nella segreteria del Pci a Tiburtina col futuro sindaco Petroselli, iscritto alla Cgil. Poi il vento del ‘68 rimescola tutto. Nell’aprile del 1970 Lippa viene assunto come autista di Lama, «mi offrirono 30mila lire in più, all’epoca erano soldi». Miliucci vince un concorso all’Enel, contribuisce alla nascita del manifesto, scontento si radicalizza sempre di più: è tra i promotori di Radio Onda Rossa, la radio degli autonomi romani, la frangia più violenta del movimento del 1977.
Lippa guarda e riguarda le foto, pensieroso, malinconico. «Fu un’aggressione ingiusta», mormora come tra sé. «Lama era andato a parlare agli studenti, di lavoro nero, di futuro, e quelli lo attaccarono come tori». «Lama era come il generale Custer che viene per uccidere gli indiani, il Pci e la Cgil vedevano come lesa maestà il fatto che ci fosse qualcuno a sinistra di loro: ma gli abbiamo dato un bel calcio nel culo», dice Miliucci, che ha conservato i tratti del capopopolo.
È un anno terribile, il 1977. Tre studenti morti (Francesco Lorusso, Giorgiana Masi, Walter Rossi). Le Brigate Rosse che sparano ai giornalisti, ferendo Montanelli e uccidendo Carlo Casalegno. Il nuovo ‘68 si irradia inquieto dalle aule universitarie alle strade. Contestano soprattutto il Pci del compromesso storico. La Sapienza è occupata da 14 giorni, quando Lama, giovedì 17 febbraio, decide di andare a parlare lì, per recuperare un rapporto. «Come ogni mattina lo andai a prendere alle 7,30 nella sua casa alla Balduina. Era tranquillo, pur consapevole dei rischi che quel comizio comportava. Quando arrivammo lì c’era già molta gente, Lama fu fatto salire sul Doge, il camion che fungeva da palco, io mi piazzai alle sue spalle», ricostruisce Lippa. «Alle sei del mattino i fabbri della Cgil ruppero le catene con cui erano stati serrati gli ingressi dell’università e fecero irruzione. Una provocazione», rammenta Miliucci. Lama inizia a parlare alle 10, mentre partono, sull’aria di Guantanamera, gli slogan del movimento: «Luciano fatti na pera/fatti na pera».
Lippa posa lo sguardo sui tipi fotografati con il passamontagna e i bastoni. Cosa prova? «Ancora molta rabbia». Quando chiediamo a Miliucci se riconosce qualcuno dei compagni di allora, scuote la testa: «Nessuno». Dice: «Giocavamo in casa. Lama era venuto a dirci: sgomberate. Un atto di prepotenza da Partito comunista polacco». «Se rivedo la scena», chiude gli occhi Lippa, «ricordo che ridevano e sputavano». Poi la folla si fece minacciosa, con più forza premeva sul palco. «Lama disse al compagno Aldo Bonaccini: “Bisogna dire ai nostri di rimanere calmi, perché sennò qui ci scappa il morto”. Si riferiva a duecento operai dei cantieri di Civitavecchia che tendevano a rispondere alle provocazioni», è il flash dell’autista. Finì di parlare, Lama? Lippa dice di sì. Miliucci sostiene il contrario: «Nessuno lo ascoltava più, il camion ormai ondeggiava, a quel punto il sindacalista Bruno Vettraino, capita l’antifona, tagliò corto: “La manifestazione è sciolta”. In quel momento un tizio del servizio d’ordine, tale Ughetto, usò un estintore contro di noi. La folla reagì assaltando con furore il camion, Lama scappò».
Anche sulla fuga le ricostruzioni divergono. «Avevamo lasciato l’auto in piazzale Aldo Moro, ora eravamo dall’altra parte, ma non fu una fuga. Lama non perse mai il controllo» assicura Lippa. «Io invece ricordo che Lama ansimando chiese a un cameraman: “Per caso ci stanno raggiungendo?”» lo contraddice Miliucci. E mentre il piazzale della Minerva s’incendia di tafferugli – autonomi e studenti contro comunisti, una battaglia feroce che lascerà sul campo decine di feriti sanguinanti, indifferenti alle invocazioni «non ci si picchia tra compagni!» – il camion-palco è smontato pezzo dopo pezzo. Lippa nel guadagnare l’uscita sferra un colpo di karate a un fotografo («mi dispiace ancora adesso») e insieme ad Aladino Lombardi scorta il segretario sul viale Regina Margherita, dove ferma una Mini rossa. «Io all’epoca giravo armato, alzai il braccio per intimargli l’alt, era un ferroviere che stava andando al lavoro alla stazione Tiburtina. Gli dissi: “C’è qui l’onorevole Lama, ci può portare nella sede di corso Italia?”. Era un nostro iscritto, non credeva ai suoi occhi». All’indomani Lama rilasciò un’intervista a Lietta Tornabuoni nella quale definì l’accaduto «un nuovo fascismo». «Non sono mai stato un pacifista, usavamo le bottiglie molotov per legittima difesa», spiega oggi Miliucci. Poi, come recitando, ripete lo slogan di allora: «Fintanto che la violenza dello Stato si chiamerà giustizia, la giustizia del proletariato si chiamerà violenza».
Lippa ha 78 anni. Fu l’angelo custode di Lama fino alla fine della sua segreteria nell’86. Il 4 dicembre ha votato Sì. Miliucci ha 74 anni. Finì in carcere due volte, nell’80 per associazione sovversiva, nell’86 per una scazzottata a Comiso, nel primo caso lo salvò l’amnistia, nel secondo fu assolto. «In tutto sono stato in galera un anno. Ora sto nei Cobas, voto solo ai referendum, ma sono un interlocutore fisso dei Cinquestelle sui temi della precarietà».
Forse l’aggressione a Lama ci parla ancora oggi perché quel giorno per la prima volta «ci si picchiò tra compagni». Fu la rottura di un tabù. Una spaccatura che non si è mai più ricomposta.