Il Sole 24 Ore, 2 febbraio 2017
Lo shock Trump e la ridotta dell’Europa
Non c’è mai riuscita la Russia di Putin, tra violente spallate al principio di inviolabilità delle frontiere europee, guerre in Crimea, Ucraina e prima in Georgia e dopo in Siria, riti catenergetici, in breve revanscismo scatenato.
Non c’è riuscita la Cina, il colosso all’assalto del mondo globale, la riscossa vincente a colpi di protezionismo interno ed espansione esterna, dumping massiccio, investimenti a tappeto, acquisizioni di imprese e tecnologie altrui.
Ci voleva un partner e un alleato quasi secolare per dichiarare guerra all’Europa: una guerra economica, commerciale, valutaria, finanziaria, fiscale, in definitiva culturale. Ci voleva il 45° presidente degli Stati Uniti per rinnegare la consolidata identità di valori e interessi, patrimonio del mondo libero si chiamava, e tentare il capolavoro di affondare l’Occidente in una guerra fratricida che nemmeno Francis Fukuyama e la sua fine della storia erano arrivati a concepire.
Fa sul serio Donald Trump? A guardare le cifre in ballo si stenta a crederlo. A ufficializzare l’insostenibile pesantezza del rischio è stato l’altro Donald, il polacco Tusk che presiede il Consiglio europeo. Nella lettera di invito ai 28 capi di governo al vertice Ue che si tiene domani a Malta ha elencato nero su bianco Cina, Russia, Medio Oriente e Stati Uniti tra le minacce che incombono sul futuro dell’Unione. Equiparazione senza precedenti, fino a ieri impensabile.
Stati Uniti ed Europa, gli uni il principale partner economico dell’altro, tuttora fanno insieme il 50% del Pil mondiale e oltre il 30% del commercio internazionale. L’interdipendenza viaggia su un interscambio che vale oltre mille miliardi di dollari all’anno, investimenti per oltre 4mila miliardi e un totale di 13 milioni di posti lavoro. Oggi a Washington si accarezza l’idea di imporre dazi del 20-35% alle frontiere. Quando si negoziava il Ttip, il patto economico transatlantico da affiancare a quello difensivo Nato, cioè solo l’anno scorso, i dazi medi tra le due aree erano (e sono) del 3%: il loro azzeramento, visto l’enorme volume degli scambi, avrebbe prodotto l’aumento dell’export del 17% con benefici per 53 miliardi in 5 anni per gli Usa e 69 per l’Ue.
Passato remoto. Salvo retromarce clamorose. Per ora nulla lo fa credere. Superato lo shock, sarebbe saggio dunque che l’Europa si preparasse a reagire.
Non fossero arrivati in un crescendo coerente e senza remissione, gli attacchi di Trump, almeno alcuni, potrebbero rientrare nella continuità di un repertorio che a fasi alterne ha sempre scosso, senza seri danni, il dialogo Ue-Usa: dentro e fuori G-7 e G-20, dentro e fuori il Doha Round (fallito).
Questa volta non si tratta delle solite querelles ma di tante scosse di uno sciame sismico che intende cambiare gli equilibri tellurici del mondo, mettendo al centro “America first”. Non è un programma né una politica negoziabile.
Quando l’America di Trump dice che la Nato è obsoleta e il contribuente Usa non pagherà più per la sicurezza degli europei, quando seppellisce il Ttip come il Tpp con il Pacifico e forse anche il Nafta con Canada e Messico predicando il verbo protezionista e bilateralista, quando inneggia alla frattura di Brexit promettendo accordi commerciali agli inglesi, quando denigra l’Europa agli ordini degli interessi tedeschi e ne preannuncia la fine insieme all’euro, quando spara sul dumping monetario del marco mascherato da moneta unica debole per conquistare indebiti vantaggi competitivi a spese della crescita Usa, quando promette un fisco amico delle imprese anche per favorire il rimpatrio dei capitali dall’Ue, non lancia diktat a nessuno ma rompe volutamente le regole del grande gioco per scrivere le proprie, lanciando la palla in campo avverso.
Spetta a chi se la prende in faccia decidere che cosa fare.
L’Europa ha due possibilità: o subisce l’anarchia in piena subalternità, cioè non sceglie, o ricomincia da Trump. Impresa ciclopica ma obbligata. In un mondo dove il multilateralismo muore con i vecchi totem del libero commercio e dell’economia di mercato classica e la globalizzazione si infrange sul muro del protezionismo Usa di ogni tipo e colore, che inevitabilmente ne scatenerà altri in una spirale crescente di rappresaglie e contro-ritorsioni, l’Unione e l’eurozona saranno costrette a rivedere drasticamente il proprio modello di sviluppo.
I mercati degli altri si faranno più piccoli e instabili, dunque il suo mercato interno da oltre 500 milioni di consumatori diventerà un bene prezioso, come la moneta unica (da verificare in quale formato). Il motore dell’export, che fin qui ha carburato la crescita, dovrà riconvertirsi riscoprendo le virtù della domanda. Chi ha accumulato enormi surplus commerciali, come Germania e Olanda, dovrà investirli a sostegno del nuovo modello, che necessariamente dovrà essere in grado di finanziare una difesa forte e autonoma, una politica energetica integrata, diversificata e alleggerita della dipendenza esterna, soprattutto se scoppiasse l’intesa tra l’America di Trump e la Russia di Putin.
In questo scenario anche la politica di austerità andrebbe ripensata. Come il livello di fiscalità sulle imprese con sede in Europa per evitarne la fuga in massa verso Stati Uniti & Co.
Scampoli di una possibile rivoluzione copernicana. Per farla l’Europa deve trovare volontà, coraggio e coesione politica per rimettersi in gioco e cambiare pelle e ambizioni. Sarebbe paradossalmente bello che Trump, il guastatore dell’ordine mondiale, passasse alla storia come l’artefice involontario della nuova Europa.