la Repubblica, 10 gennaio 2017
Francesco Merlo racconta: «Noi, nel giardino Rai come erbe da estirpare»
DICEVO ogni tanto ai colleghi che noi in Rai eravamo come il Terzo paesaggio di Gilles Clément. Quando con cattiveria ci ingiuriavano – «ma cosa fanno? come passano il tempo? come sprecano i soldi degli italiani?» – dicevo loro che tutti quei giardinieri della Rai – i vigilanti politici, i consiglieri di amministrazione e i sindacalisti – ci trattavano come erbacce da estirpare. Ma Gilles Clément ha appunto raccontato che l’erba più comune di Parigi arrivò un giorno dalla Siberia, proprio come Carlo Verdelli, e poi anche io, siamo arrivati dalla carta stampata.
IN CALIFORNIA fu alien plant persino la palma, che ora ne è il simbolo, come lo sono in Rai i giganti che in passato vi furono innestati: Biagi, Barbato, Zavoli, Umberto Eco, Furio Colombo… Al netto delle ingiurie personali, era tutto quel nostro gruppo di lavoro, la struttura messa in piedi da Carlo Verdelli, ad essere trattato come una specie venuta da lontano, non autoctona ma infestante. E infatti l’erbaccia cominciò subito a infestare il famoso settimo piano restituendo al lavoro una splendida stanza con boiserie a suo tempo riservata a un satrapo della famigerata Struttura Delta. Dunque, nella stanza con il legno, le tende e tre finestre, che il codice della casta assegna ai dirigenti di fascia A, si sistemarono quattro giornalisti, soldati semplici della struttura editoriale di Verdelli. Fu il primo piccolo scandalo e qualcuno commentò che Verdelli faceva come il Papa che porta le sedie alle Guardie Svizzere.
Ecco, “infestante” è un aggettivo negativo, ma solo per chi si oppone al fenomeno naturale dell’innovazione biologica: al web, per esempio, contro cui non si può combattere pena la sterilità e la morte dell’informazione pubblica. «Ma che so ’sti hashtag?» ci disse un direttore chiarendoci subito i motivi di fondo dell’irrilevanza della Rai in quel vasto mondo che ormai si informa solo su Internet e sui social media.
Né ci si può opporre, pena la chiusura nel ghetto romano e qualche volta romanesco della cialtroneria anche linguistica, dell’anarchia dei comportamenti e della furberia, alla nascita di una Rai finalmente nazionale che non è solo il Tg a Milano («ma siete leghisti?»).
Capisce chiunque che non si tratta di riaprire l’eterno stucchevole giochino della competizione Roma-Milano, il campanilismo più enfatico della nostra storia, ma di raccontare l’Italia anche con il lessico calvinista, e con lo stile, direbbero Giorgio Armani e Giuliano Pisapia, delle tre “d” milanesi: discrezione, disciplina, dovere.
E davvero va finalmente raccontata anche l’Italia più sommersa, quella che non è solo dei record negativi, con un Tg da Napoli («e perché non da Reggio o da Bari?» ci hanno detto i campanilisti), che del Sud è stata ed è la capitale anche culturale, ma con gli occhi di tutti i sud italiani, anche quelli che stanno a Nord da “terroni”, i meridionali di Torino “la napoletanità milanese”, che è “freschezza e luce, l’infinito dilatarsi, un cuore d’acqua”, il mare di Porta Venezia inventato dal napoletano Giuseppe Marotta nel suo memorabile (ma chi oggi ne ha memoria?) A Milano non fa freddo. Non c’è in Italia un’informazione all’altezza della grande letteratura che è invece molto meridionale. Poiché sono i luoghi che raccontano il tempo, al posto della vecchia lottizzazione ideologica (cattolici, socialisti e comunisti) immaginavamo una coralità territoriale dell’Italia che non è solo Roma. Non è questo il vero pluralismo? Non è la Rai che parla dell’Italia ma con i linguaggi finalmente di tutta l’Italia?
La struttura editoriale di Carlo Verdelli, che fu messa in piedi a fine giugno, ha visitato tutte le 21 sedi della Rai (la Sicilia ne ha due) senza mai dare pagelle, per capire e non per giudicare. E posso dire con cognizione che non è vero che la periferia è più politica del centro, ma è vero che in periferia la politica è più sfacciata, meno controllata, più aggressiva, e per i giornalisti non è affatto facile resistere al suo urto e alle sue prepotenze. Lo fanno in tanti e con grande fantasia in quella impari lotta quotidiana che è la libertà di stampa, valore collettivo, ma impegno individuale e solitario. E questo vale per tutti noi, giornalisti italiani.
Ricordo bene quando demmo alla rinascita dell’informazione regionale il nome di redattore multimediale territoriale, uno in ogni capoluogo di provincia, giornalista tecnicamente autosufficiente, restituito al territorio e liberato dal comparaggio politico dei notabili locali.
Ho avuto una stanza al settimo piano di viale Mazzini e posso dire che i funzionari non sono più come il dottor Marsala di Alto Gradimento di Arbore e Boncompagni, quello che aveva il cerchio alla testa, i dolori e fiutava l’odore di lavanda. Ci sono manager moderni e per bene ma ci sono anche marpioni in transito che fonderanno produzioni private, ci sono alchimisti dei palinsesti bravi e onesti e ce sono altri che proprio attraverso i palinsesti curano gli interessi del padrinato politico e degli agenti delle star. Ho lavorato con persone che con grande pazienza affrontano i mille ricattini delle associazioni di categorie e di genere che minacciano ricorsi per ottenere visibilità, disposti a tutto come in Bellissima di Visconti, per un passaggio alla Vita in diretta, o un invito a un talk.
Sono stato in Rai sei mesi, e non è compito mio raccontare nei dettagli il piano editoriale di Carlo Verdelli, la Newsroom Italia dove si fonderebbero l’informazione regionale, 749 giornalisti, la più grande redazione d’Europa, con l’informazione minuto per minuto di Rainews 24 per offrire un servizio trasversale a tutte le reti della Rai. C’era anche il canale in inglese, Rai Italy, e c’era ovviamente il nuovo sito web di ottanta/novanta giornalisti affidato, come ha annunziato Antonio Campo Dall’Orto, a Milena Gabanelli.
Ripeto qui che quando, dopo sei mesi, mi dimisi, lo feci perche capii che tutto era inutile e che la sfida per liberare l’informazione Rai dai partiti non aveva i presupposti per essere vinta. Una volta in questo Paese ci si dimetteva anche per amor proprio. E si può lasciare non solo quando ci si sente “al di sotto”, ma anche quando ci si sente “al di sopra”. Insomma, le dimissioni oltre che la struttura morale dell’individuo, misurano anche la dignità etica del luogo in cui ci si muove.
Un mese dopo di me, si è dimesso anche Carlo Verdelli che mi aveva voluto accanto. Spiegherà lui le ragioni del suo exit. Io penso che la politica, articolata nei cosiddetti partiti Rai, ha reagito molto male e ha diserbato il Terzo paesaggio. La Rai nel potere italiano è quanto di più simile c’è all’idea di eternità. Ma questa volta, se altre erbacce non la contamineranno, non ci sarà nessun Terzo paesaggio.Infine, nonostante io sia un caso di dimissioni senza reimmissioni, ancora i giardinieri mi insultano per lo stipendio e qualcuno, con dosi crescenti di volgarità, aggiunge che non facevo nulla, che ero io il dottor Marsala della situazione. Per fedeltà a uno stile non rispondo alle singole ingiurie, sono pronto alle polemiche ma non alle sue degenerazioni. Rivendico l’eccezione di avere dato e non solo annunziato le dimissioni, e di avere rinunziato a un contratto dopo solo sei mesi, quando la maggior parte dei miei accusatori ci si sarebbe aggrappata vita natural durante.