la Repubblica, 2 dicembre 2016
Pontecorvo la spia (presunta) che fuggì verso il freddo
«Voglio essere ricordato come un grande fisico, non come una vostra fottutissima spia». Così, nel 1993, poco prima della morte, Bruno Pontecorvo avrebbe declinato una richiesta di intervista da parte di uno storico russo che stava facendo ricerche per un documentario sulla guerra fredda. La citazione è di terza mano: dice lo storico che così gli riferì il rifiuto il funzionario ex Kgb a cui si era rivolto perché sollecitasse l’intervista. Contrasta con lo stile e l’eleganza del personaggio. Ma lo sfogo è assolutamente verosimile. Pontecorvo, uno degli allievi più promettenti di Enrico Fermi, come il suo maestro emigrato prima in America, per sfuggire alle leggi razziali, poi in Inghilterra, nel 1950 era “sparito” in Russia. Ma di queste cose non parlava. Non con i giornalisti, non con i familiari, forse nemmeno con se stesso. A quanto pare non ne discusse mai con il figlio Gil, che aveva dodici anni quando la famiglia interruppe in pieno agosto le vacanze in Italia e si ritrovò a Mosca, e che continua a fare il fisico nel laboratorio del padre a Dubna. Non diede spiegazioni a nessuno dei parenti e amici che aveva potuto rivedere in Italia solo trent’anni dopo, e nessuno gliele chiese. Nel 1990 parlò a più riprese con Miriam Mafai. Ma non di spionaggio. Il suo libro Il lungo freddo è una miniera, una fonte di inestimabile ricchezza, anche sulla vita intima e affettiva di Pontecorvo. Le sarebbe stato rimproverato di aver accettato una versione fin troppo “autorizzata” e troppi silenzi dal suo interlocutore. «Ci sono cose che non potete capire, a meno che non siate stati comunisti», aveva risposto Miriam a Frank Close che le chiedeva conto di quei silenzi. Era nel marzo 2012, un mese prima che anche lei scomparisse. Eppure di cose a lei ne aveva dette: «Sono confuso» era stata la risposta alla richiesta di un giudizio sugli sviluppi politici (era da poco crollata l’Urss). «Sono stato un cretino”, avrebbe rincarato in un’intervista all’Independent nel 1992.
Bruno Pontecorvo era un genio. Fu uno dei più grandi fisici delle particelle del secolo. Lo hanno definito come “padre nel neutrino”, l’elusiva particella subatomica che si manifesta nei reattori e nelle stelle. Chi l’ha conosciuto lo ricorda come persona di grande fascino, affabile, gentile, spiritosissimo. Su questo sono d’accordo tutti. Ma fu anche una spia sovietica? Non lo sapremo mai. E comunque la questione è ormai irrilevante. Ma è proprio questo l’aspetto sul quale si concentrano gli interrogativi e i titoli di tutto quello che si pubblica su di lui. Compreso il libro di Frank Close, Una vita divisa. Storia di Bruno Pontecorvo, fisico o spia (Einaudi). La conclusione è che non ci sono prove in base a cui si possa concludere in un senso o nell’altro. Non c’è ipotetico tribunale della storia che possa condannarlo oltre ogni ragionevole dubbio. Si possono fare solo ipotesi. La conclusione che il lettore ricava da questa impressionante mole di ricerca è che probabilmente fu l’una cosa e l’altra, un grandissimo fisico e una spia.
Frank Close è diverso dagli altri biografi di Bruno Pontecorvo. Anche lui è un fisico famoso, che insegna a Oxford, ed è autore di numerosi libri di divulgazione scientifica (con Einaudi ha pubblicato Antimateria e L’Enigma dell’Infinito). Ha quindi i titoli per trattare del Pontecorvo scienziato. Conferma che Pontecorvo avrebbe meritato non uno ma tre o quattro premi Nobel: per i contributi forniti alla fisica dei neutrini; per l’ipotesi che i neutrini che interagiscono con una forza universale (il che fa di lui praticamente l’inventore del Modello Standard); per le intuizioni sulle oscillazioni dei neutrini (la cui conferma sperimentale ha valso il Nobel l’anno scorso a Takaki Kajita e Arthur McDonald); per la scoperta che ci sono diverse varietà di neutrini, la cui conferma sperimentale valse il Nobel a Lederman, Schwartz e Steinberger nel 1988; e per aver rivoluzionato l’astronomia con l’invenzione del rivelatore al cloro, grazie al quale Ray Davis ebbe nel 2002 il Nobel per le sue osservazioni dei neutrini emessi dal sole.
Pontecorvo invece di Nobel non ne ebbe. E la ragione è per Close evidente: la sua misteriosa “fuga” dall’Occidente. Erano gli anni della rincorsa mortale su chi, tra America e Russia, avrebbe conservato o rotto il monopolio sulle armi termonucleari. America e Russia si spiavano e si rubavano i segreti nucleari già da quando erano alleati contro Hitler. Tra i più noti scienziati che passarono, per loro scelta e per convinzione, informazioni a Mosca c’erano Klaus Fuchs e Alan Nunn May. Il primo passò sette anni in carcere, il secondo nove. Una volta rilasciati ripresero la carriera scientifica e accademica. Quanto a Pontecorvo, nessuno, nemmeno l’Mi5, l’agenzia di James Bond, è mai riuscita ad appurare se abbia passato segreti prima del 1950, cioè prima della sua fuga. Per il dopo è un altro paio di maniche: lui negò sempre di aver mai lavorato alla bomba, ma le sue ricerche evidentemente servivano anche a quelli che facevano la bomba.
Tra i nuovi documenti scovati da Close c’è un telegramma da cui Kim Philby, la principale talpa sovietica ai vertici dell’Mi-5, apprende che in America sospettano di Pontecorvo. Potrebbe avere accelerato la fuga, ma non prova che lui fosse una spia. L’unica cosa incontestabile è che, spia o no, Pontecorvo fu “punito” molto più duramente dei suoi colleghi fisici spie confesse: trascorse in Russia 43 anni, di cui una trentina praticamente da prigioniero, dovette subire il costante sospetto dei suoi “ospiti” e non poche frustrazioni alla sua carriera scientifica, l’esaurimento nervoso e il ricovero in clinica psichiatrica della moglie Marianne.
Chi glielo aveva fatto fare? Il cugino Emilio Sereni che l’aveva convinto a iscriversi in segreto al Partito comunista, e forse lo aiutò nella fuga? Una fede sconfinata nella grande causa? Uno spirito di sacrificio totale? Sereni mi aveva raccontato il dramma lacerante vissuto all’annuncio del Patto Hitler- Stalin nel 1939. Bruno Pontecorvo racconta invece alla Mafai di come scelse proprio quel momento in cui gli altri erano in crisi per dichiararsi pienamente d’accordo col Patto. Non risulta che la fede gli sia venuta meno nemmeno quando (lui era già in Urss) i medici ebrei furono accusati di aver cospirato per assassinare Stalin e altri dirigenti. Non stupisce che interrompesse i contatti col fratello Gillo, il regista de La battaglia di Algeri, quando questi lasciò il partito dopo i fatti d’Ungheria. Lui invece si stupiva che i dirigenti del Pci non avessero rotto con Gillo. Non pare lo disturbasse che alla costruzione della gigantesca cattedrale nel deserto che era il suo laboratorio fossero addetti eserciti di prigionieri nell’uniforme a righe del Gulag. E non ebbe ripensamenti nemmeno quando altri grandi fisici suoi colleghi, che alla bomba sovietica avevano lavorato davvero, come Andrej Sacharov, denunciarono le falle del sistema, e ne pagarono le conseguenze.